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Certi uomini capiranno mai che una donna può metterci settimane o mesi per decidere se è il caso di denunciare o se è meglio cercare di dimenticare e di rimettere insieme alla meglio i cocci di se stessa?


Se quaranta giorni vi sembran troppi


9 Luglio 2023 / Lia Celi

C’è ancora molta gente (soprattutto uomini, bisogna dire) convinta che subire uno stupro sia più o meno come essere vittima di uno scippo o di un borseggio. Qualcuno ti ha strappato la borsa, o non ti ritrovi più in tasca il portafoglio o il cellulare, o la catenina al collo, e subito fai la cosa più naturale: corri dalla polizia a raccontare quel che ti è successo, anche perché senza denuncia non puoi rifare i documenti. Sei arrabbiato e sconvolto, ma non tanto da trascurare la prima precauzione, cioè bloccare carte di credito e bancomat.

Quando si subisce un torto, niente e nessuno può trattenerci dal chiedere subito giustizia, no? E se lo facciamo per un portafoglio rubato, a maggior ragione dovremmo pretendere l’immediato intervento della legge per una forma di sopraffazione violenta. L’esitazione, l’indugio di una vittima di stupro nel denunciare vengono guardati con sospetto, come indizi sicuri di calcolo, di opportunismo, di malafede o addirittura di complotto. Sicuramente abbiamo a che fare con una scaltra profittatrice di piccola virtù, che prima se la spassa, poi, dopo attenta e ponderata riflessione, tenta di rovinare un pover’uomo, o peggio ancora, un povero ragazzo (specie se costui ha una posizione importante o una famiglia in vista) sperando di lucrare visibilità, risarcimenti in denaro, o semplicemente la soddisfazione di aver infangato il buon nome di qualcuno più in alto di lei.

La legge scritta si è evoluta lentamente, ma sempre più in fretta di troppi cervelli. A quasi cinquant’anni dal mitologico Processo per stupro che rivelava il massacro della dignità della vittima esercitato da inquirenti e giudici, le cose non sembrano molto cambiate. Come dimostra anche il recentissimo caso della presunta violenza sessuale denunciata dalla giovane sconosciuta che ha chiamato in causa il figlio minore di Ignazio La Russa, una larga parte dell’opinione pubblica non afferra ancora la particolare natura di questo reato contro la persona, e tantomeno le sue conseguenze.

Il legislatore l’ha capito, tanto che ha aumentato a dodici mesi (fino al 2019 erano sei) il termine per presentare querela in caso di stupro. Invece lo stesso presidente del Senato, che pure un po’ la legge dovrebbe conoscerla visto che di secondo lavoro faceva l’avvocato (il primo era collezionista di busti mussoliniani), per difendere il figlio ha subito tirato in ballo i quaranta giorni che separano il fatto dalla denuncia della ragazza.

Una violenza sessuale non si augura a nessuno, ma sarebbe bello che questi santommaso dello stupro altrui si ritrovassero incastrati nel tritacarne che inghiotte ogni donna quando denuncia uno stupro: visite mediche, indagini sulla propria vita intima, rievocazioni ripetute di un’esperienza che, come tutti i traumi, il cervello tenderebbe naturalmente ad obliterare per proteggersi, sistematica messa in discussione della propria credibilità, moralità, sincerità, esame invasivo dei propri comportamenti, relazioni, perfino guardaroba. Per non parlare delle conseguenze che minano la salute fisica e psichica, la stima di sé, la vita intima e quella lavorativa, una volta che l’identità della vittima viene diffusa. Ultima ma non meno devastante, l’immancabile valanga di insulti o irrisioni via social. E più è importante, protetta e privilegiata la persona che si accusa, più la scelta di parlare è rischiosa, al limite dell’autolesionismo.

Se gli uomini che assimilano uno stupro a un furto d’auto sperimentassero in prima persona quanto la ricerca di giustizia per questo reato somiglia a una replica più prolungata del reato stesso, forse smetterebbero di domandarsi perché una donna può metterci settimane o mesi per decidere se è il caso di denunciare o se è meglio cercare di dimenticare e di rimettere insieme alla meglio i cocci di se stessi. Scoprirebbero che l’istinto spinge verso la seconda opzione, e che ci vuole un gran coraggio per scegliere la prima. Un coraggio da donne.

Lia Celi