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L'infinta querelle sulle statue bronzee da mettere nella piazza che però si chiama Tre Martiri


Ma quanti Cesari vuole avere Rimini?


16 Luglio 2023 / Lia Celi

C’è qualcosa che non capisco nella lunga querelle sulla statua bronzea di Giulio Cesare, quella regalata da Mussolini alla città nel 1933 e ora custodita al Museo, anziché nella sua posizione originaria, in piazza Tre Martiri. Se c’è un luogo dove non sta bene esporre un souvenir del duce è una piazza consacrata a tre vittime del nazifascismo, e siamo d’accordo. Ma allora perché esporvi una copia esatta di quello stesso souvenir?

Evidentemente il Comune ritiene che le colpe degli originali non ricadano sulle copie. Anzi, sulle copie delle copie delle copie, poiché già il Cesare mussoliniano è una copia realizzata dalla fonderia napoletana Laganà, che a sua volta aveva copiato la copia di una statua di epoca traianea che era stata collocata nel 1932 a Roma nella nuovissima via dell’Impero, oggi via dei Fori Imperiali.

Descritta così sembra un’installazione alla Andy Warhol, tipo il quadruplo ritratto di Marilyn o della zuppa Campbell. La cosa più buffa è che, fosse stato per Mussolini, il nostro Cesarone sarebbe finito a Ravenna, perché lì, secondo lui, era avvenuta la famosa allocuzione alle legioni prima del passaggio del Rubicone. Che Cesare avesse pronunciato il discorso a Rimini gli giungeva nuova. Anzi, il duce nemmeno sapeva che la città, oltre al ponte di Tiberio e all’arco d’Augusto, avesse una piazza intitolata a Giulio Cesare e corrispondente all’antico foro, dove sorgeva il cippo da cui il generale aveva arringato i legionari – tutte notizie che Mussolini apprese da don Domenico Garattoni, sacerdote riminese entusiasticamente fascista.

Il non ancora fondatore dell’Impero si convinse che Rimini meritava una statua di Cesare e ne preannunciò l’invio al podestà Palloni, prescrivendo di adornarla di fiori a ogni Idi di marzo. Il monumento fu posizionato in una nicchia ai piedi della Torre dell’Orologio e venne solennemente inaugurato il 10 settembre 1933, come simbolo dell’onore reso dal duce «al suo antenato politico e alla sua terra di Romagna», come disse nell’occasione il senatore Emilio Bodrero.

La sovrapposizione fra Cesare e Benito era così evidente e percepita che alla fine della guerra la statua fu la prima cosa che sparì dalla piazza. Ma non venne fusa o distrutta: nel corso degli anni fu sepolta, dissepolta, risepolta, sballottata di qua e di là, come un ricordo imbarazzante, ma che non si vuole o non si può obliterare del tutto: esattamente come il fascismo, con cui non siamo riusciti ancora a fare i conti fino in fondo.

Morale, oggi ci ritroviamo con un Cesare al museo e un suo gemello spurio in piazza Tre Martiri, donato dal Rotary Club nel 1996. Per considerarlo «defascistizzato» dobbiamo sforzarci intensamente di credere che quel Cesare non sia una copia della copia voluta da Mussolini e nemmeno della copia che stava in via dell’Impero, fascista pure quella, ma che replichi l’originale d’epoca traianea.

In realtà se qualcuno di notte sostituisse il Cesare del Rotary con quello del museo non se ne accorgerebbe nessuno, tanto sono identici. Se non le scambiasse davvero ma sostenesse di averlo fatto, sarebbe la stessa cosa. Forse la cosa più logica e imparziale sarebbe portare al museo anche il Cesare del 1996 e collocarlo vicino a quell’altro. Sì, tutti e due nella stessa posizione, tipo gemelle Kessler. In sottofondo, un allegro motivetto: «Gallia est/omnia divisa in partes tres/ irritando Ciceron/traversammo il Rubicon/per lanciare il dado-umpa, dado-umpa, dado-umpa». Si arrabbierebbero i neofascisti, l’Anpi si farebbe due risate e i turisti accorrerebbero a frotte.

Lia Celi

(nell’immagine in apertura: la xilografia di Luigi Pasquini del 1933 “Interpretazione ideale del comandamento del Duce espresso nel messaggio al Podestà di Rimini”)