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“Io. Giovanni Piccioni”, una vita da brigante di Pietroneno Capitani


Un romanzo per “sfurgatare” tra le crepe della storiografia ufficiale


20 Agosto 2023 / Enzo Pirroni

Mi è capitato tra le mani e l’ho letto con piacere, più volte, “Io. Giovanni Piccioni”, una vita da brigante di Pietroneno Capitani.

Con la storia del “brigante” Giovanni Piccioni, priore, cioè sindaco di Montecalvo (paese del territorio ascolano), ambientata alla fine del 1860, Pietroneno Capitani s’invesca nel ROMANZO STORICO. Apparentemente siamo fuori dal tempo e dalle mode. Occorre, a questo punto, riassumere chi era questo Giovanni Piccioni. Era un personaggio “importante”, istruito per quello che erano i parametri del tempo, dotato di ottime doti di stratega, ricco di esperienze militari. Aveva già combattuto con il grado di maggiore nell’esercito papalino contro i francesi durante l’invasione dello Stato Pontificio nel 1815 e contro la Repubblica Romana nel 1848. Fu in quella occasione che, con una chiara vittoria, riuscì a restituire la marca ascolana al Papa regnante. I mesi successivi alla unificazione d’Italia e a quelli delle annessioni al Regno Piemontese, sono mesi difficili.

I piemontesi, nell’Italia centrale, sono visti come invasori e sia nelle Marche che negli Abruzzi si svilupperà un movimento antiunitario. Si formeranno bande composte da contadini e montanari che si concentreranno soprattutto sui monti dell’ascolano. C’è da sottolineare un fatto: a capo dei bersaglieri piemontesi c’era il generale di nome Augusto Pinelli. Era costui un soldato brutale che non esitò a dare alle fiamme interi paesi quando aveva il sospetto che gli abitanti fossero dei “sovversivi”.

Effettuò esecuzioni sommarie, passò a filo di baionetta donne e bambini, tanto che, agli inizi del 1861, venne sollevato dal comando e al suo posto subentrò il generale Luigi Mezzacapo. Ma il danno era ormai compiuto. Fu a quel punto che il comando delle “bande ribelli” venne affidato a Giovanni Piccioni, uomo integerrimo e valoroso. Capitani, ripercorre e analizza gli eventi di quella controversa, tristissima stagione. Che dire? In questo “romanzo”, perché di romanzo si tratta, la ricostruzione storica è vista come rimedio all’azione distruttiva del potere (qualunque potere) contro la memoria.

Capitani, altro non fa se non “sfurgatare” tra le crepe prodotte dalla incuria della storiografia ufficiale, andando alla ricerca di tutto ciò che è stato omesso o volutamente cancellato. L’autore, intende sì, evidenziare le analogie e le differenze che intercorrono tra il presente (il momento in cui scrive) e l’epoca storica in cui si svolge la vicenda e, per quanto distante risulti la prospettiva dalla quale i destini degli uomini vengono osservati, la ricerca di un senso è il leit motiv di tutta la narrazione.

Scrivere un romanzo storico nel nostro tempo, può apparire un paradosso; soprattutto se si tiene conto della perdita di prospettiva, che è propria della cultura post-moderna, tuttavia leggendo il libro, incentrato sulle vicende del “brigante”, ci si rende conto che si tratta di un paradosso apparente. A differenza dei romanzi ottocenteschi, Capitani, rifiuta di esprimere una concezione positiva, forte della storia.

Ci si accorge, che in quelle righe dense, così partecipate. L’autore caccia lontano da sé ogni idea storicistica di progresso. Non c’è nel romanzo nessuna fiducia nella evoluzione positiva dell’umanità. Il presente è troppo squallido mentre il passato è, oltre che fuga dalla realtà, la ricerca confusa, malcerta di un’origine, di un luogo primigenio e perciò sacro. Si finisce col ribadire un concetto, ormai abusato. L’area in quistione è l’entroterra marchigiano, una zona geografica che tanto è cambiata ma che per Capitani, come per l’autore del Gattopardo è rimasta sempre uguale a sé stessa.

La materia è di quelle brucianti: la mistificazione che fu l’unità nazionale ed il tradimento delle grandi speranze, poiché il 1861 e gli anni, immediatamente seguenti, segnarono un faticoso processo che lasciò irrisolta la quistione delle classi subalterne, fino all’indomani della Grande Guerra.

Giovanni Piccioni dietro i tre figli (da sinistra) Gregorio, Leopoldo, Giovanbattista

Con la biografia di Giovanni Piccioni, si sconfessano verità ufficiali, confezionate artatamente da ogni tipo di potere che si è susseguito nel nostro Paese. Capitani, racconta un’Italia povera ma reale. Quell’Italia che viveva nelle campagne e che aveva quali compagne la frustrazione e la miseria.

Un altro aspetto che mi ha colpito, leggendo questo agile libro è che da sempre (per propria natura) il romanzo storico è caratterizzato dalla onniscienza dell’autore e dalla estraneità dello stesso ai fatti narrati. Nel caso di Capitani, facendo egli prevalere la microstoria sulla macrostoria sembra chiedersi: Chi è di scena oggi? Di chi parlerò se non di aguzzini, sfruttatori, maligni mangiaguadagni, negromanti chiamati ad esercitare la giustizia, conduttori dei tribunali di Satanasso?

Per amore di verità: Giovanni Piccioni venne catturato e condannato ai lavori forzati a vita. Morì in prigione nel 1868. I suoi discendenti furono costretti a pagare, fino agli anni 40 del secolo scorso, i danni allo Stato Italiano.

Questo libro, l’abbiamo già detto, è un libro storico ma è anche la storia di un’avventura, una storia alla quale assistiamo ogni giorno e della quale siamo protagonisti ed attori: l’avventura della nostra lingua, IL DIALETTO. Nella fattispecie è il dialetto ascolano, un parlare antico, le cui origini affondano nell’Alto Medioevo, quando il latino si andava trasformando. Padroneggiando questo dialetto aspro e “difficile”, Capitani con ironia e con la capacità innata di saper raccontare, ci introduce in un microcosmo linguistico duttile ed arcigno, cosicché ci rendiamo conto come il DIALETTO, nel corso dei secoli, non si sia fatto scrupolo di saccheggiare vocaboli da altre lingue, di come la formazione lessicale si sia andata modificando ed evolvendo per stranissime, imperscrutabili strade.

Enzo Pirroni