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Gli indimenticabili personaggi che si sfidavano sulla terra rossa


Maiki Morri, la migliore racchetta di Rimini


19 Settembre 2023 / Enzo Pirroni

C’è poca memoria, nello sport come altrove. Per disquisire di tennis, per mia personalissima consolazione, vado a rivisitare le piccole, caserecce, ma nello stesso tempo, esaltanti emozioni provenienti dal passato.

Non è soltanto la nostalgia o un tremolante rimpianto senile che mi spingono ad operare codesta operazione à rebours, è  soprattutto un voler prendere le distanze dallo sport attuale, dalle sue iperboliche degenerazioni, è il voler far rivivere i momenti magici, anche se minimi, legati ad avvenimenti e personaggi che meritano di essere tolti dai polverosi ed obliati archivi per essere portati alla conoscenza delle giovani generazioni e di tutti coloro che li hanno, ahimè, dimenticati. All’ inizio del novecento, fino agli anni precedenti l’ultimo conflitto, nel nostro paese, lo sport della racchetta, veniva praticato esclusivamente da élites.

Va detto, così per inciso, che il primo tennis italiano vide la luce a Bordighera nel 1878 nelle adiacenze della locale chiesa anglicana, mentre a Rimini il primo court, il Club Lawn Tennis, venne inaugurato il sette luglio 1900, ad opera di un tal dottor Demetrio Grovenhoff, un russo residente a Firenze il quale era solito trascorrere le vacanze estive nella nostra città. Quattro anni prima, il 16 aprile 1894, era stata istituita l’Associazione Italiana Lawn Tennis “con lo scopo di promuovere e sviluppare il giuoco con tutti quei mezzi che saranno stimati più idonei, e specialmente concedendo premi e organizzando i Campionati Nazionali”. 

Negli anni cinquanta il tennis era ancora passatempo riservato ai ricchi borghesi. Proprio in una solida famiglia della alta borghesia riminese, Maurizio (Maiki) Morri, vide la luce nel 1937. Il padre, il dottor Francesco, sportman impenitente, era stato, fin dagli anni venti, uno dei cittadini impegnati nella pratica e nell’organizzazione di molteplici attività sportive.

Il piccolo Maiki crebbe da predestinato. Ebbe modo, fin dalla prima adolescenza di eccellere in diverse discipline:  la di lui solidità, la velocità, la capacità di sopportare le fatiche erano davvero sorprendenti.

Si sentiva a suo agio in mezzo ad un prato a rincorrere un pallone di cuoio, come su di una pista di tennisolite. Ai campionati studenteschi di atletica leggera del 1952, tenutisi allo Stadio Comunale, nella finale dei 5000 metri, arrivò secondo, battuto soltanto da quel talentuoso atleta (per anni fu il gladiatorio terzino sinistro della Rimini Calcio) che è stato Sergio Lucchi. Riusciva, immergendosi in mare (la piscina a Rimini è stata sempre considerata una struttura inutile), a restare sott’acqua per oltre due minuti e sulla terra rossa, con una racchetta in mano, era pressoché imbattibile. Il primo campionato sociale se lo aggiudicò a quindici anni, a questo ne fecero seguito non so quanti altri.

Nel 1953, dopo essere risultato vittorioso in diversi tornei di terza categoria, raggiunse gli ottavi della Coppa Lambertenghi, un torneo questo che veniva unanimemente considerato il banco di prova più probante per definire i futuri talenti. Gli indiscussi campioni di quel tempo erano in campo internazionale: Drobny, Sedgman, Hoad, Rosewall mentre per quanto riguardava casa nostra, ai declinanti Cuccelli e Del Bello, erano succeduti Gardini e Merlo, due atleti, quest’ultimi, possessori di tecnica assai approssimativa ma dotati di eccezionale carica agonistica. Era, quello di allora un gioco fatto di gesti bianchi. I campioni erano eleganti, le racchette di legno costringevano a giocate misurate. Esisteva la smorzata, il lob, il tocco, la fantasia, il divertimento.

A quel tempo nessuno faceva caso alle palle break. Tutte cose che, purtroppo, non ci sono più, ad ucciderle sono state le superfici sintetiche, le palle pressurizzate e le moderne racchette diventate veri e propri attrezzi spaziali. Nel settembre del 1956, sui campi del Circolo Tennis di Rimini, si disputarono i Campionati Universitari Italiani. La coppia Morri – Dalgas, che rappresentava, in quell’occasione l’ateneo fiorentino (Maiki era iscritto alla facoltà di architettura), si impose, nel torneo di doppio sconfiggendo il duo Spinola – Galdieri del CUS Bologna col netto punteggio di 6-2, 6-4, 6-0. Il singolare maschile se lo aggiudicò il milanese Rino Tommasi, oggi noto giornalista e commentatore televisivo. A Rimini, Maiki Morri, fu l’indiscusso numero uno per circa vent’anni.

In più occasioni raggiunse la finale del singolo nel torneo nazionale di terza categoria che, ogni anno nel mese di luglio si svolgeva  nella nostra città. Ad impedirgli la vittoria furono, di volta in volta, nomi che sarebbero diventati famosi  in campo nazionale: Di Maso, Crotta, Casini, Motta, Garrone. Nella fossa del campo numero uno, in viale Regina Elena, su una terra rossa artatamente resa paludosa da quell’insuperabile gestore che è stato Edo Grossi, Maiki era pressoché imbattibile. A rafforzare codesta invulnerabilità collaborarono il pubblico, per lo più composto da amici e praticanti ed una curiosa, per quanto autorevole, figura di giudice di sedia: Luigino Serpieri. Luigino arbitrava per puro gusto dissacratorio oltre che per spirito beffardo.

Le sue chiamate erano imperiose. I suoi verdetti non ammettevano discussioni. Fu lui che ad un quotato professionista forlivese, buon “terza categoria” che, pur inviso al pubblico per i modi altezzosi, era tuttavia, con merito, approdato alla finale, nel match-point a suo favore, sulla seconda palla di servizio, gli chiamò il “fallo di piede”. Inutile dire quale fu l’epilogo. L’avvocato di Forlì diede di matto. Entrò in completo stato confusionale e finì col perdere l’incontro. Ma in quegli avventurati anni il microcosmo del tennis era affatto particolare. La consapevolezza di appartenere ad una classe privilegiata, il non aver nulla da chiedere alla storia, rendeva tutti quei personaggi scettici ed irridenti. Nessuno di costoro era costretto a sperare in squassanti riforme per conquistarsi soleggiati futuri per cui, una volta all’interno di quella enclave dorata che era il Circolo Tennis, i compiaciuti borghesi si spogliavano del seccume manageriale, degli aggrondati atteggiamenti professionali per soddisfare minuti bisogni che si convertivano in scherzucci di stolto e compiaciuto minimalismo.

L’aria che si respirava in quel luogo, anche nelle più intricose circostanze era gravida di innocenza; si era immersi in un’assoluta tranquillità ed ignoranza di qualsiasi colpa. Edo Grossi, il gestore, era partito insieme al fratello Enzo come umile raccattapalle prima ai campi Peragallo e poi in quelli dell’ Hotel Excelsior (già Savoia – Hungaria). In seguito divenne un sagace, volpino manovratore di uomini e di situazioni, si addottrinò nelle scaltritezze mondane, seppe controllare le megalomanie e le bravate di truci clienti, con mielate parole placò le ire morchiose di fantocceschi matamori, riuscì a mettere in campo sesquipedalici brocchi, con demoniaca arte seppe, per anni, tenere in mano qualsiasi situazione, si ingegnò di unire ciò che pareva impossibile a congiungersi accozzando, con infinita destrezza, santi e diavolacci, ottenendo sempre ciò che lui voleva senza mai dimenticarsi del proprio personalissimo particulare. Attorno a lui gravitarono all’inizio i conti Sassoli, i De Bianchi, i Cini, quindi. Cesare Sega, Franco Ferrara, Carlo Cappelli, Nicola Palloni, Gualtiero Carli, Adalberto de Angeli, Alfredo Masinelli, Riccardo Ravegnani, Romolo Landi, Calliope Bianchi, Flavio Lombardini, Ulisse Pizzi, Vero Vannucci, Sebastiano Ciacci, Giorgio Starr, Francesco Morri, in seguito arrivarono Gian Battista  e Giancarlo Briolini, Gilberto Garattoni, Alessandro Spina, Riccardo Contestabile, Fernando Vienna, Gilberto Niccolò, Athos Taddei, Claudio Giordano, Andrea Giusti, Francesco Tramontano, Paolo Ottogalli, Vittorio Crescentini. 

Di maestri federali o no, nemmeno parlarne. Si vedevano, nei torridi mesi estivi, di tanto in tanto, alcuni insegnanti forestieri che impartivano lezioni, per lo più a bambini lardosi e per niente interessati. Erano costoro  cagliostreschi pedagoghi, cortigiani dolciastri che si limitavano a lanciare agevoli palle ai loro svogliati allievi tra un profluvio di lodi e di falsi apprezzamenti. L’unico tennista riminese che si fregiò del titolo di “maestro” fu Sergio Manduchi. Sergio, proveniva dal foot-ball. Aveva giocato a lungo come portiere nei campionati minori.

Era in possesso di un gran fisico e si avvaleva di una naturale eleganza. Il suo lillipuziano regno era circoscritto ai due campi che sorgevano nei giardini del Grand Hotel. Le estati le trascorreva indossando candide magliette Lacoste. Impugnando l’impossibile Spalding di oltre quattordici once, senza atteggiarsi a gran sacerdote, era capace di palleggiare per ore e ore facendo passare la palla venti centimetri sopra la rete e facendola atterrare ad un metro dalla riga di fondo. Era un vero piacere vederlo all’opera. Ma per il resto era barnum.

Ormai si è andato svaporando addirittura il ricordo di quel brulichio di pseudo tennisti, si discioglie come un castello di sabbia minacciato dall’acqua della memoria lo spettacolo vaudevillesco che aveva per protagonisti patetici, deliranti personaggi impegnati a rincorrere a vanvera l’imprendibile pallina. Il dottor Calliope Bianchi, un mancinaccio che il tennis lo sapeva giocare, e che in gioventù aveva calcato con relativo successo i campi di calcio nella serie cadetta (dopo aver giocato in serie C con il Dopolavoro Ferroviario si trasferì a Siena che disputava il campionato di serie B), raccontava, quando ne aveva voglia, allorché, giovine studente residente a Riccione venisse più volte invitato a giocare con Benito Mussolini. Giocava solo a destra il Duce impugnando la racchetta come un villano impugna la roncola.

Una volta che il giovane Calliope si azzardò sommessamente a suggerirgli: “Eccellenza, vogliamo provare il rovescio?”, si sentì rispondere, sicuramente in senso ironico: “Ragazzo, noi tireremo diritto!”. Inoltre, come dimenticare il professor Flavio Lombardini, classe 1904, un vero ginnasiarca che a settanta anni suonati sfoggiava un personale asciutto, proporzionato, scattante ed avanzava sui campi di terra rossa maestoso ed austero al pari di un cigno tra tanti paperi.

Giocava in maniera improbabile ma metteva nel gioco tutta la serietà e l’impegno di chi era stato avvezzo a gareggiare ad alto livello (Lombardini atleta lo era stato veramente); così quando una pallina cadeva nei pressi delle righe nella di lui parte di campo, il professore con tono di voce tra il vindice e l’imperiale la chiamava immancabilmente aout. “Peccato. Bella palla. Ma è fuori!” E se l’avversario si azzardava ad esprimere qualche dubbio circa l’esattezza della chiamata, veniva immediatamente tacitato: “Cosa dice. Mette in dubbio la mia parola!”. Né è possibile dimenticare Giorgio Starr. Era costui un russo, figlio di un alto funzionario dello zar.

Rimasto orfano nel periodo più atroce della rivoluzione dovette con la madre abbandonare il paese. Iniziò per Georgy l’esilio con esso il relativo corollario di sradicamento. Rifattasi una nuova vita in Italia, la madre, collocò il figlio presso un prestigioso collegio svizzero a Montreux. Qui il giovane poté formarsi le basi di una educazione solida, aperta, internazionale. Si appropriò della lingua inglese e di quella francese ma soprattutto imparò a giocare a tennis, lo sport che fu la costante passione di tutta la sua lunga, piacevole esistenza. 

Di Rimini per oltre cinquant’anni è stato fedele ed amato ospite. Scendeva annualmente all’Hotel Bikini, l’albergo più prossimo ai campi del Circolo Tennis. Immancabilmente, alle cinque della sera, era possibile vederlo sul campo numero uno, praticamente immobile, apparentemente barcollante, piazzato a rete in attesa che una qualche palla si decidesse a transitare nei pressi. Quando l’evento si verificava si produceva in apprezzabili volè ed in astuti più che potenti smash. Agli applausi degli spettatori (a quei tempi ce n’erano sempre), rispondeva con profondi inchini che possedevano la cerimoniale gravità romanoviana. Ma l’unico vero atleta fu Maiki Morri. Il gioco di Maiki era particolare perché anomalo. Credo non abbia mai colpito una palla con pura violenza. Affidandosi ad un solido colpo: il rovescio, produceva un tennis che apparentemente sembrava innocuo mentre era subdolo, difficile ipnotico.

Un ritmo d’acqua dormiente veniva improvvisamente interrotto da isocroni guizzi. Al momento di scendere in campo, l’avversario, doveva mettere in preventivo di correre. Maiki, infatti, disintegrava le altrui tattiche lembo a lembo, rompeva il ritmo degli scambi, nel suo gioco la precisione da laboratorio si univa ad una sfavillante scapigliatura da caffè letterario. Attaccava in controtempo costringendo lo sfortunato antagonista a recuperi dispendiosissimi ogni qualvolta gli riusciva uno dei suoi imprendibili, eccezionali, splendenti  drop-shot, architettati da posizioni pazzesche. Nello scontro era duro e nulla concedeva all’avversario rimanendo, pur sempre, nei limiti di lealtà e cavalleria.

D’altra parte, lo sport è mimesi della vita secondo leggi incruente e Maiki Morri è un personaggio in cui l’intelligenza, l’educazione si sposano con l’agonismo temprato sempre da una utilissima autoironia.  E’ stato un “campione” ad esatta misura di una città e di un periodo storico particolare: quando le racchette erano di legno, le buone maniere erano ancora apprezzate e l’essere signori escludeva in assoluto l’essere villani.  Ricordo quelle mattinate domenicali, quando sull’inaccessibile campo numero tre, austeri signori incrociavano le rispettive racchette.

C’erano, rigorosamente avvolti in candide flanelle, l’ing. Nicola Palloni, il prof. Flavio Lombardini, l’ing. Cesare Sega e tra costoro il giovane Maiki che faceva coppia col padre. Era un mondo a sé, fatto di sussurri, di gesti misurati, di bon ton. Giocare a tennis era soprattutto mostrare uno stile di vita, un modo felpato di dichiarare l’appartenenza ad un’aristocrazia. Erano loro che, distinguendosi sulla massa, detenevano denaro, cultura, competenze, capacità, inventiva. Oggi, Maiki Morri credo, sia ancora quel perfetto gentleman che aveva imposto la sua legge in tutti i tornei di terza categoria. Forse sarà impedito da qualche malessere dovuto alla età, ma io lo vedo ancora come quel raffinato ed appassionato tennista col quale era piacevole giocare sotto il sole stordente, correre come un disperato, terminare la partita raccogliendo, soltanto, qualche misero, sparuto “quindici” e poi, nel riposo del dopo – doccia, ascoltarlo mentre ti parlava dell’arte architettonica di Gaudì.

Tempo fa, per aver scritto, che ritenevo Maiki Morri, il miglior tennista che la nostra città avesse mai espresso, Igor Gaudi, un tennista concittadino che in anni recentissimi è approdato ai fasti della prima categoria, mi inviò una civilissima lettera, nella quale mi faceva notare l’impossibilità del paragone e di come fosse immotivata la mia scelta. Sicuramente sulla mia affermazione gravava e grava tutt’ora la benevola concessione ai panorami compiutamente famigliari e nello stesso tempo fantastici della mia giovinezza, nei quali trova posto la convinzione che un corridore come Sergio Fabbri, il popolare “Fabbrone”, che in carriera non andò oltre la categoria “dilettanti” sia stato, in potenza, più forte di Rik Van Looy, che nessun difensore sia stato superiore a Romano Scardovi, il mitico “libero” della Rimini Calcio degli anni sessanta.

Inoltre, come nel racconto di Franz Kafka, intitolato “Primo dolore”, cerco di comportarmi esattamente come il protagonista: quell’acrobata che si rifiutava di scendere dal trapezio. Lo faccio mentre la foltissima schiera di amici, morti in questi ultimi anni mi offre l’annunzio di quanto sia precario l’acerbo ghigno della vecchiezza. Credo che il bravo racchettaro dal nome tolstoiano abbia capito. Per me Maiki è stato e resta il migliore.

Enzo PIrroni

(nell’immagine in apertura: 15 settembre 1956, Maiki Morrim, primo a ssinistra, in coppia con Dalgas vince il Campionato Universitario di doppio maschile)