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Un tempo la spiaggia era la spiaggia, gli orti erano gli orti, i bagnini erano sempre quelli: ignorantacci bruciati dal sole


Noi di San Giuliano e le donne della Barafonda


22 Settembre 2023 / Enzo Pirroni

Noi di San Giuliano, che siamo cresciuti stando affacciati al mare abbiamo voci orribilmente strascicate. Parliamo storcendo la bocca, con profonda disistima e non sappiamo di chi. Forse di noi stessi perché non ci si rende conto per quale motivo dovremmo avere in uggia tutti gli altri nostri concittadini. Parliamo con torpida cadenza marinaresca. Le nostre parole non son mai rotonde. Sono sghembe, oblique e sono parte integrante di una teratologia paesaggistica fatta di linee pencolanti, di dune sabbiose, di decrepite abitazioni dalle cui persiane penetra un malignaccio raggio di sole che ha forato, per anni e anni, come un ago le nostre pupille. Il nostro è un dialetto acquatile, al punto che le voci ci escono dal gargarozzo col sentore di alga. Escono come pesci: quei vischiosi “govatti” pieni di lische che nessuno, al giorno d’oggi si azzarderebbe a mettere in tavola.

In questo settembre mentre l’estate, tra nuvole bianche accompagna all’occaso un sole ormai fattosi trasparente, ripercorro le strade, per me familiari della Barafonda: via Zavagli, via Nicolini, via Tonini, via Di Miniello… e la solitudine, l’abbandono la decadenza ingigantiscono il sortilegio e l’inquietante architettura che ora porta impresso il lutto che non si può risarcire con il rimpianto, mi gettano in un enorme buco nero. Un tempo, per noi, abitanti di quei luoghi, nulla esisteva di sconosciuto.

La spiaggia era la spiaggia, gli orti erano gli orti, i bagnini erano sempre quelli: ignorantacci bruciati dal sole, untuosi, volpini, addottrinati nelle gherminelle mondane, servili coi “signori”, prepotenti con i poveretti. Eravamo dei semplici? Forse. Ma il tempo nel quale siamo venuti al mondo era popolato di gente onesta, di gente perbene. E se, sicuramente anche allora abbondavano i rabazieri, gli inetti, i lestofanti costoro erano impotenti a delinquere, poiché la stragrande maggioranza degli italiani, li disprezzava e li teneva alla larga. Era una Italia provinciale o per dirla con Giacomino Leopardi: oppidiana. Poi arrivarono gli anni settanta e tutto cambiò. Personaggi sfaticati, incapaci persino di fare una O con un bicchiere, che nessuno, soltanto un pugno di anni prima, avrebbe preso in considerazione, si eressero a politici solo perché indossavano l’eskimo e bivaccavano in Piazza Tre Martiri. Sciocchi ripetitori di stupidi slogans divennero in breve i “maestri del pensiero”, veri e propri dulcamara infilzatori di luoghi comuni e mere banalità. Il Pci, a piene braccia li accolse, li candidò nelle proprie liste, li riempì di onori e palanche.

L’estenuazione di una vita, fino allora piatta e ripetitiva, ispirò la rovina del Paese. Diceva Kafka: “Nel grande dilemma ontologico, che lacera il mondo è necessaria la morte perché la vita sia bella”. Poi, mentre prendevo la via del ritorno mi imbattei in un gruppo di donne. Le osservai. Erano immutate. Parevano delle matrone bizantine. Erano le stesse donne che, agli inizi degli anni sessanta, i pochi cantastorie che bazzicavano fiere e mercati, cantavano nelle loro ingenue “zirudelle”. Donne protagoniste di fatti straordinari: Pia de’Tolomei uccisa dal marito, Ginevra che amava Lancillotto. Erano le stesse donne altere della Barafonda, le stesse che secondo Ariosto: “andavano ai convegni amorosi avvolti in neri mantelli”. Donne virtuose se volevano esserlo, dolcissime quando erano dolcissime. Ma quelle donne, le donne della Barafonda, di San Giuliano Mare come sanno essere semplici e pudiche, in amore sanno essere intraprendenti fino alla sfacciataggine. Credo che nessun borgo di Rimini abbia prodotto tanta abbondanza di sode e tenere carni muliebri, di seni così abbondanti e sodi, di gambe tornite e forti come la Barafonda. Dicono che le femmine più pazze siano le “furlane” e subito dopo vengono le romagnole che sono insuperabili come amanti o come soleva dire Malatesta Novello da Cesena: come “manze”.

Osservandole, ripresi la via di casa. Sulla via Coletti, le lunghe ombre della sera si stendevano sull’asfalto, simili a quelle onde che il fiume produce entrando nel mare. Ho riflettuto e ho capito che in questa particolare stagione dell’anno la donna, più che mai, non appartiene al suo uomo, posseduta com’è da quella feconda e decadente bellezza che trasforma la natura tutta. Non a caso queste donne sono depositarie di un linguaggio arcano, ermetico, impenetrabile, un linguaggio: quel dialetto scontornato ed aspro che per secoli hanno custodito nei loro seni.

Enzo Pirroni