In quei teneri anni sessanta a San Giuliano Mare
3 Novembre 2023 / Enzo Pirroni
Gli anni sessanta, fanno entrare nelle case il secondo canale TV. Lo annuncia, a tre milioni di abbonati, una sorridente e compita Annamaria Gambineri. E’ il momento del Da-da-umpa. Le gemelle Kessler, con le chilometriche gambe ricoperte da monacali mutandoni neri, sconvolgono l’immaginario erotico dei maschi italioti. Il “compagno” Giorgio Amendola, celebrando il centenario dell’unita’ d’Italia, annuncia che “mai, in questo paese si è stati così bene“. Trionfa il Cantagiro. “La pubertà è assurta a mito“, sentenzia un giovane professore di Alessandria, dal nome che è tutto un programma. Ne risentiremo parlare. Il ballo imperante è il twist. Una danza carica di sottintesi sessuali. Originari di Liverpool, quattro ragazzotti che suonano e cantano, al loro apparire al Palladium di Londra, mandano in tilt l’intero paese. I Beatles, appunto.
“Nessuno mi può giudicare”, canta Caterina Caselli. Purtroppo, non è così per “Mondino” Fabbri da Castelbolognese, commissario “tecnico” (come diceva lui) della nazionale italiana di calcio, il quale, subendo, a Middlesbrough, il 19 luglio 1966, l’eliminazione dai Campionati Mondiali, ad opera della Corea del Nord, sarà costretto ad affrontare mille processi e confermerà, una volta di più, se ce ne fosse bisogno, l’assunto di ser Niccolò: “Che se tu fiderai nelli italiani, sempre auerai delusione”.
Da gran signore, “maitre” Jaques Anquetil, si avvia verso un dignitoso tramonto. Eddy Merckx, dietro l’angolo, affamato di successi, attende col cappello in mano. Gimondi, vincendo il Tour del 1965, fa il suo ingresso tra i campioni. Nella notte del 18 aprile 1967, al Madison Square Garden di New York, Nino Benvenuti, sconfiggendo Emile Griffith, si laureerà, primo italiano nella storia, campione mondiale dei pesi medi.
Noi, vivevamo questi anni, immersi nella ovattata atmosfera, che si poteva, a quei tempi respirare, in un particolare quartiere: quello di San Giuliano Mare. Questa zona, chiamiamola pure di confine, ma nello stesso tempo integrata nel tessuto urbano, non si è mai vantata di custodire una “eredita’” esclusiva, romantica – popolare, come avveniva e tutt’ora avviene nel Borgo San Giuliano. Non muoveva e non muove enormi risorse finanziarie. Non ha mai promosso vaste collusioni col mondo degli affari e della politica. Non si è mai particolarmente invischiata nell’esercizio della microcriminalità urbana. Anche l’identità culturale, un tempo ricercata e definita, attraverso l’elaborazione di un codice linguistico esclusivo, s’era da tempo perduta.
In questi teneri anni sessanta, il bar era ancora il punto di approdo; il momento di massima omogeneità, di maggiore omologazione sociale. In via Coletti, sulla destra, prima di arrivare al Ponte della Resistenza, c’era il bar dei fratelli Quarto e Quinto Pasini. In questo tempio della “briscola” e del biliardo, si cercava di innalzare barricate che impedissero la colossale mutazione che, in quegli anni, avrebbe stravolto assetti secolari, ridelineato gruppi e classi, avrebbe segnato, inesorabilmente, il declino di un mondo arcaico, rispettoso delle gerarchie, dei valori atavici. Un mondo che credeva ancora nell’amicizia, nella solidarietà, nel quale, il dialetto era il vero e proprio segno di appartenenza alla tradizione popolare.
In questo locale si riversava tutta la pittoresca fauna umana della zona. Pierino, perennemente in tuta, parlava sempre e soltanto di soldi. Al pronunciare la parola: milioni, gli occhi cominciavano a brillargli e una leggera bava gli scendeva dal labbro inferiore. Fu lui, che una volta, urlando a squarciagola perché tutti i vicini lo sentissero, ordinò alla moglie, chiamandola alla finestra: “Buttami giù quei quattro milioni che sono nel primo cassetto del comò. Non quelli che sono sul tavolo del salotto“. La moglie, ubbidiente, gettò il pacchetto tenuto da un elastico. Purtroppo, toccando terra, l’elastico si spezzò. Sul terreno rimasero due sole carte da diecimila lire, il resto erano ritagli di giornale della stessa dimensione delle banconote.
Capitava pure che un’automobile fuoriserie, tra stridore di freni, si arrestasse davanti alla entrata del bar e ne scendesse Helen Kessler (o era Alice. Non ne sono sicuro) che innamorata cotta di un nostro amico, lo veniva a prelevare per trascorrere con lui il fine settimana, in non so quale esotica località (o era il Motel Fabbri?). Allorché l’ora di chiusura si faceva prossima e la maggioranza degli avventori aveva da tempo, preso la strada di casa, tra gli irriducibili nottambuli, si dava la stura alle discussioni più bislacche. Si lanciavano le sfide più assurde, si formulavano le scommesse più pazze. Luigino Arrigoni, un giovane (allora) veneziano che trascorreva da noi l’intera estate, una notte scommise che avrebbe bevuto un “grappino” in ogni bar che avesse trovato aperto, percorrendo la via Emilia, da Rimini a Bologna. Si dice, che l’assurda corsa finisse a Faenza, dopo il quindicesimo bicchierino.
Indossando pantaloni a “zampa d’elefante” dalla piega impeccabile, camicia di seta attillata, aperta sul petto villoso, con i capelli lucidi di brillantina, alla domenica, di buon mattino, faceva il suo ingresso nel locale Luciano. Dava una occhiata distratta alla pagina sportiva del quotidiano ed ordinava un Vov. Per lui il settimo giorno non era dedicato al riposo. Costui, (sebbene già avanti con gli anni) diceva di avere tre “morose”. Una abitava a Cesena, un’altra a Pesaro e la terza a Pennabilli. Incredibile a dirsi il nostro Luciano le andava a trovare tutte. Partiva con la sua vecchia bicicletta da donna, pedalando con una sola gamba, essendo l’altra “rigida” per quel malaugurato incidente capitatogli (a suo dire), scalando il K2. C’era anche lui, infatti, nella spedizione himalaiana che, guidata dal prof. Ardito Desio piantò, nel 1954, la bandiera italiana sulla seconda vetta del mondo.
In estate, per coloro che avevano tempo a disposizione, l’appuntamento era presso il bagno N. 1, gestito da Walter Borghini, il bagnino più disponibile, brillante, generoso che io abbia conosciuto. Qui, nelle ore sonnacchiose del primo pomeriggio, si formulavano i progetti che avrebbero avuto, nella nottata, la realizzazione. In quel mare, già allora bruttarello e alquanto degradato, il capitano Alfredo Pecci (un povero amico che ci ha lasciato precocemente), invitava i bagnanti ad imbarcarsi sul suo “cutter” per effettuare una lunga gita a San Marino. La notte la si trascorreva al dancing “Capannina” dei fratelli Buldrini.
Nel locale di via Ortigara, tra un lento struggente di Giorgio Martino, ed un cha-cha-cha, di Pedro Urbina, nascevano amori brevi e travolgenti, grazie ai quali, una operaia bergamasca od una stenodattilografa della Magneti-Marelli, di nessuna particolare attrattiva, veniva corteggiata e poteva, a buon diritto sentirsi affascinante e desiderata al pari di una star. All’Embassy, che a quel tempo equivaleva all’università, ci introdussero Vincenzo Paolini, Jimmi Cavallo, Kino Zamagni, Luciano “Parilla” Carlini. Jimmi, Kino e Vincenzo erano i “draghi” indiscussi, i “califfi” incontrastati del prestigioso night.
Vincenzo, detto “Gamba”, alto, elegantissimo nel suo completo scuro, determinato ed irriverente, aveva, una sera, “puntato” una ragazza bellissima, vistosa, naturalmente bionda, la quale mostrava di non disdegnare le attenzioni del “fusto” riminese. La sera seguente, gli sguardi ammiccanti, i segni di intesa da parte del Nostro, si fecero più arditi e più pressanti, ma la bionda si era tramutata in una statua di sale. Non lo vedeva proprio. Non poteva certo abbandonare l’opera. Non era mai successo che alle di lui profferte fosse seguito un rifiuto. Pertanto continuò. Fu allora che un tipo tarchiato, uno di quei duri presi di peso dai racconti di Chandler, gli si parò d’innanzi ed in malo modo gli intimò di piantarla. “Cos’hai da guardare?” Disse. Vincenzo, che sapeva reggere il gioco e che si era allevato atteggiandosi ad Hunphrey Bogart, rispose: “Us guerda un palaz, mei us po guardé ma un vis de caz“. Il rituale era stato rispettato. Ora non si poteva far altro che battersi. Come gli eroi dell’O.K Corral, si avviarono verso la spiaggia. Gli amici, dell’uno e dell’altro li seguivano a rispettosa distanza. Fu un attimo. Vincenzo, dal pugno secco e fulminante, si mise in guardia nella posizione canonica del boxeur.
Ma l’altro, velocissimo, agguantandolo, con presa felina alle gambe l’aveva già steso e lo colpiva duramente. Li fermarono. Vincenzo rimase per diverso tempo con gli occhi pesti. Il suo avversario era nientemeno che Francis Turatello. Si disse, in seguito, che diventassero amici. Inutile aggiungere che le quotazioni di “Gamba”, nel particolare “borsino” dei birri riminesi, crebbero notevolmente.
Ma chi ne aveva voglia e naturalmente possedeva le competenze necessarie, poteva nel bar, parlare di politica. Domenico Casadei, un verniciatore, comunista convinto, che in gioventù aveva lavorato a Torino, e negli anni venti aveva conosciuto molti dei padri fondatori del P.C.I, riduceva ogni cosa a lotta di classe. C’era per ogni fenomeno sociale, culturale, sportivo, una spiegazione e questa era sempre e comunque: “Finché ci sarà lo sfruttamento del capitalismo nei confronti del proletariato…“.
Chi si ricorda più del sor Magni, un arguto vecchietto toscano (era lo zio del campione Fiorenzo), che incontravo ogni mattina uscendo di casa. Lo salutavo: “Buon giorno signor Magni! Dove va?”. La risposta era invariabilmente la stessa: “Vo a trombare, pallino, vo a trombare!”.
Si cominciava, in quei tempi a conoscere il verbo sofisticare. Il delitto Ghiani – Fenaroli, dividendo le opinioni degli italiani, fece vivere in diretta un coinvolgente ed appassionante feuileton giudiziario. Dove sono finiti quei bei processi di una volta?
Vuoi mettere la personalità, la classe dei coniugi Bebhawi a confronto con il burattinesco, ormai defunto, Silvio di Arcore.
Fisso questi appunti per certe storie che mi riprometto di raccontare in giorni meno precari. Intanto: hic manebo optime.
Enzo Pirroni