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La giovane Lilith Miserocchi salvata in tribunale dal medico Adamh Levi-Menendez


A Rimini una storia di Sant’Uffizio, Ebrei e streghe


29 Novembre 2023 / Enzo Pirroni

Il dottor Adamh Levi-Menendez, nacque, presumibilmente intorno al 1630 a Salamanca. La data e il luogo di nascita sono controversi. Amador de los Rios ed Anastasio Chinchilla, storici della medicina, nelle loro opere: Historia de la medicina espanola e Annales Historicos, sostenevano che Levi-Menendez, medico stimato, fosse, in un primo tempo, passato dall’ebraismo al cristianesimo ed in seguito, in Italia, fosse tornato a riconvertirsi alla fede di Isacco.

A Venezia, in casa del rabbino Geremia Zernitz, nel Ghetto Vecchio, sfogliando un volume della monumentale: Biblioteca Magna Rabbinica, ed. 1683, mi capitò di leggere: Adamh Levi-Menendez, progenie iudaeus ex ijs qui olim fidem Christi susceperant, postea abnegarunt. A Secchiano, nello studio del pittore Mirro Antonini, (credo fosse il 1972 o 73) mi cadde sott’occhio il diario tenuto in passato da un frate francescano, tal fratello Serafino da Verucchio, nel quale, tra notizie minuziose di bassa quotidianità, nelle quali raramente, lo scrivente, sorpassava la schematica esposizione dei fatti della giornata, c’era un accenno, per l’anno 1666, all’opera umanitaria, svolta in favore dei malati poveri della città di Rimini, dal dottor Levi-Menendez, “giudio espagnolo doctissimus et multo pio nello hanimo“.

Gli anni che il dottor Levi-Menendez trascorse a Rimini, non dovettero essere particolarmente felici. Sì, è vero, fin dagli anni intorno al Mille avevano avuto in appalto dal vescovo la riscossione di metà del portorio, la dogana portuale, e intorno al 1400, gli ebrei avevano avuto un peso rilevante nella economia della città. Potevano esercitare l’usura e praticare pure con relativo guadagno la “soccida”, che altro non era, se non l’affitto degli animali nell’ambito dell’agricoltura. Inoltre, gli ebrei riminesi erano stati i banchieri di Sigismondo Pandolfo Malatesta, ma col crudele signore non fecero buoni affari. Quando la fortuna gli voltò le spalle, il Malatesta, non rese loro ciò che aveva ottenuto a titolo di prestito, forte del principio giuridico che: Ipsi iudaei et omnia sua regis sunt.

Allorché il 31 marzo 1492, Ferdinando il Cattolico, re di Spagna, emanò un decreto secondo il quale tutti gli ebrei dovevano, entro quatto mesi lasciare la Spagna, oppure avrebbero dovuto battezzarsi, diventando “marrani”, l’Italia, (in ebraico: I-tal-jah, significa “isola della rugiada divina”) accolse molti ebrei sefarditi (Sefarad=Spagna), ed anche a Rimini si formò una numerosa colonia israelita la quale prosperò e visse discretamente anche nei castelli circostamti, a Monefiore come a Gradara, San Marino e Santarcangelo.

Nel 1556 la bolla di papa Paolo IV «Cum nimis absurdum» istituì i ghetti in tutto lo Stato della Chiesa. A Rimini, questo luogo, frutto velenoso dello spirito controriformistico, era stato inaugurato fin dal 1548. Si trovava nell’attuale via Bonsi da S. Onofrio in poi, e nell’odierna via Cairoli dal complesso degli Agostiniani in avanti. Era delimitato da cancelli chiusi al tramonto e riaperti all’alba. Il suo cimitero era nell’area corrispondente appena fuori le mura, nel Borgo S. Andrea dove oggi c’è il parcheggio Scarpetti. Qui si dovette trasferire la sinagoga, che era stata addirittura in piazza della Fontana in fronte dei Palazzi Comunali.

Qui, come scriveva nel 1848, Massimo d’Azeglio, nel suo trattato, “Dell’emancipazione civile degl’israeliti”: questi disgraziati, con le rispettive famiglie, vivevano in un ambiente degradato, in luoghi fetidi, malsani, tristi. I locali erano incredibilmente affollati. Individui ammucchiati senza distinzione di sesso, di età, di condizioni di salute, andavano esercitando la loro straordinaria forza di sopportazione, affinavano l’implacabile ricerca di sopravvivenza, imponendosi di restare fedeli alle tradizioni, consci di appartenere ad un destino comune e praticavano tra se stessi, una premurosa solidarietà, senza pregiudizi di censo, di nazione e di convincimenti politici.

La storia degli ebrei in Spagna, in Portogallo, in Russia, in Germania, è contrassegnata da massacri. In seguito verranno chiamati pogroms, con una parola russa che diverrà tristemente famosa. Di massacri compiuti ai danni di comunità giudee, in Italia, se ne possono aver notizie più rare ma fin dagli ultimi anni del 1200. La monarchia angioina, in Campania, si rese colpevole di un eccidio in cui perirono migliaia di persone. Ancor oggi, a Napoli, esiste un vicolo che si chiama Scannagiudei e che ricorda quello sciagurato evento.

Anche a Rimini, nel secolo XVII, ci furono pogrom. A rendere possibili questi eccessi di violenza contribuì l’antisemitismo diffuso, l’idea che gli ebrei, popolo deicida, fossero perseguitati dalla maledizione divina; ma a metterli in atto, furono l’ignoranza, la superstizione, la chiesa cattolica uscita dal Concilio di Trento ed il desiderio delle plebi urbane di liberarsi dei gravosi fardelli dell’usura. Il popolaccio sfruttato, uccideva i creditori per affrancarsi dal debito, per liberarsi dallo sfruttamento di coloro che, già in partenza, erano di per se stessi degli sfruttati.

Quando in una città spariva un fanciullo, si diceva che a compiere il rapimento fossero stati gli ebrei. (Spesso zingari, vagabondi ed ebrei erano accumunati quali elementi sospetti). Se poi, questa creatura, veniva rinvenuta priva di vita, ad ucciderla erano stati i giudei. Non c’era crimine per quanto crudele ed efferato che non avesse quali mandanti ed esecutori, i figli del popolo di Israele. I giudizi di condanna superficiali, affrettati, si compivano, in massima parte, con l’esecuzione, prima ancora di aver espletato le indagini. L’intolleranza, la superstizione, la violenza riproponevano i sinistri bagliori che si erano levati dal rogo, su cui “la Vaccarina fu abbrugiata per strega in Piazza Grande“, nel 1587.

Nell’anno 1665, venne trovato morto (col corpo fatto a pezzi), un bambino di cinque anni di nome Giovanni, appartenente ad una ricca famiglia riminese: i Bonadrata. (I componenti questa casata, di recente nobiltà, avevano esercitato a lungo, acquisendo notevoli sostanze, l’attività di “strazzaroli”).

I Bonadrata, avevano  intrattenuto commerci con gli ebrei, difatti, molti giudei esercitavano il mestiere di raccoglitori di stracci e di rigattieri. Senza prove sufficienti ed in base ad indizi oscuri, venne incriminata quale assassina, una giovane ebrea riminese di grande avvenenza, (nigra et formosa): Lilith Miserocchi. Costei, venne inoltre accusata, dal reverendissimo canonico Aloysio Melzi e dal referendario apostolico Giacomo Manuzzi di Cesena che fungeva da giudice istruttore, di stregoneria e di omicidio a scopo rituale, perché l’imputata, durante la tortura, aveva pronunciato parole ebraiche. In realtà, la giovane, per sostenersi, nel supplizio della ruota, cercava di pregare e tra le frasi che le venivano contestate c’era l’invocazione; SHEMA’ JISRAEL = Ascolta Israele, che gli inquisitori interpretavano come una invocazione a Shamael: il veleno di Dio. Colui che un tempo sedeva al fianco di QUELLO – CHE – NON – PUO’- ESSERE – NOMINATO – PERCHE’ – PRIVO – DI – NOME. Pensavano, che la bellissima Lilith stesse invocando il Maligno. La giovane, aveva poche speranze di uscire viva dal processo della Santa Inquisizione.

Il tribunale del Sant’Uffizio

Intervenne, come avvocato difensore, il dottor Adamh Levi-Menendez, che nella nostra città, tra i ceti meno abbienti, godeva enorme prestigio. Era benvoluto e rispettato in virtù della sua condotta di vita integerrima e per la pietà e compassione ch’egli dimostrava verso il prossimo. Tra le tesi, sostenute dal dottore, per scagionare la sua protetta dalle accuse di omicidio rituale, una spiccava sopra tutte: “L’omicidio rituale – disse il dott. Levi-Menendez – ha come fine l’ingestione, da parte dell’assassino, o degli assassini, del sangue della vittima. Codesta pratica è assolutamente proibita dalla Legge ebraica. Porfirio, riferisce che l’uso di bere sangue umano era diffuso tra gli gnostici cristiani. E cosa è la gnosi se non una suprema conoscenza esoterica? Gli gnostici, infatti, si dichiaravano depositari del sapere perfetto, nascosto sotto simboli e rituali magici. Un sapere trasmesso, solo oralmente e sotto giuramento. Erano sempre gli gnostici, che il venerdì santo praticavano orge colossali. Ne seguiva che i frutti di questi bestiali accoppiamenti, tolti alle loro madri, venivano fatti a pezzi ed il sangue, mescolato a mestruo ed urina, diveniva bevanda per gli adepti, i quali cercavano, in tal modo, di provocare in se stessi un “delirio di conoscenza”, attraverso il quale era possibile raggiungere la pienezza della illuminazione. Questi omicidi, terribili e scellerati – continuava il dottore – sono peculiarità dei gentili e non degli ebrei. Inoltre, le confessioni estorte con la tortura, non costituiscono prova per decretare la condanna e la morte. Nei processi dell’Inquisizione, accade sovente, che gli ebrei confessino delitti che non hanno mai commesso, a causa delle intollerabili pene che la tortura provoca. La legge divina, non ordina di torturare gli accusati. Raccomanda, invece, l’accertamento delle cause e che la condanna sia decretata, solo in seguito a deposizioni certe e non menzognere. Non si può condannare un individuo, fidandosi della sua confessione, ottenuta con la tortura. Ma qui, nella nostra città, come altrove, il nome stesso di ebreo, suscita tanto odio e tale violenza, che da solo basta ad individuare e condannare l’assassino immaginato”.

Dopo aver fornito e successivamente smontato, tutta una serie di accuse, riguardanti l’omicidio rituale, Levi-Menendez, passò in rassegna le fonti autorevoli, della cristianità che si erano levate in difesa degli ebrei, scagionandoli da questo infamante sospetto. Già nel 1235, una bolla pontificia di papa Gregorio IX, difendeva i giudei “ingiustamente afflitti dai cristiani”. Innocenzo IV, nel 1247 cercava con un’ altra bolla, di vanificare l’accusa di omicidio rituale, rivolta agli ebrei. Citò, inoltre il doge Alvise Moncenigo che, nel 1475, sollevava la comunità ebraica veneziana, da tali sospetti. “Nessuno – disse il dottore – può, invece trascurare il satanismo. Questo culto è diffuso ovunque e soprattutto nella  chiesa cattolica, trova il luogo più atto a prosperare“.

Citava l’opera, Theatrum Sympateticum, di Johannes Robertus. S.J. stampata a Norimberga nel 1662. “Ma a cosa si riduce il satanismo? – proseguì Adamh Levi-Menendez –. A non altro che attribuire a Dio delle proprietà umane. A far ragionare Dio alla stregua di un umano. A farlo diventare, di volta in volta, salvatore, carceriere, giudice, carnefice. La strega, come voi la descrivete e come è rappresentata nel Compendium Maleficarum, non è mai esistita. Nessuna donna ha mai volato a cavallo di una scopa. Il Maligno non prende le sembianze di un capro per sedurre una fanciulla. A nessuna è dato di comandare alla grandine e alla pioggia. Forse alcune, durante il processo, non avendo vie di fuga, e rischiando il rogo, hanno ammesso di essere streghe, nella speranza di incutere terrore nei giudici.  Al pari del mio amico, il dottor Spinoza, io sostengo un’opinione riguardo a Dio ed alla natura che è ben diversa da quella del cristianesimo ed ebraismo attuali. Io affermo cioè, che Dio è (come si dice), la causa immanente non esteriore delle cose. Vale a dire, io, come dice Paolo, affermo che tutte le cose vivono e si muovono in Dio… ma se alcuni credono che la natura e Dio, intendendo per natura, una massa o una natura corporea, siano la stessa cosa, essi errano. La libertà religiosa rientra nella peculiarità dell’essere uomo ed è un diritto. Come esistono, per certo, le diversità individuali, così, necessariamente devono esistere le diversità di fede. Pertanto, sostengo una fede fatta di carità, indirizzata all’uomo. Una fede che conforti e rassereni soprattutto coloro che sono visitati da afflizioni e da patimenti“.

Le argomentazioni di Levi-Menendez, potrebbero sembrare un discorso eccessivamente giuridico-filosofico. Egli, cercò di sgretolare il pregiudizio di “servitus judearum”. Tentò di dimostrare che gli ebrei erano, di fatto, penalizzati, che i gentili, sebbene, storicamente, si trovassero in una posizione vantaggiosa, non avevano il diritto di perseguitare i giudei. Disse anche che:  Gli uomini sapienti, i saggi di tutto il mondo, non prestavano fede alle calunnie e che detestavano la violenza, con la quale, le plebi ignoranti, trasportate dall’odio, si abbandonavano ad eccidi e soprusi contro gli israeliti“.

Simone Luzzatto, nella sua opera: Discorso circa lo stato degli Ebrei nel 1951, riprese la vicenda riminese, che aveva avuto per protagonisti il medico di origine spagnola e la giovane Lilith Miserocchi e sostenne che l’ebrea, grazie all’appassionata difesa del dotto uomo di medicina, potè venir fuori, libera, dalle segrete del Sant’Uffizio. Ma non dice il seguito. Un medico riminese, contemporaneo di Adamh Levi- Menendez, racconta, in certa sua corrispondenza, di aver viaggiato nel 1673, “in compagnia di un uomo di media statura, dall’aspetto ordinario, vestito quasi poveramente, che gli parlava di scienza. Disse di chiamarsi Levi-Menendez, di professione medico. Portava il segno degli ebrei. Conosceva la virtu’ delle piante. Sapeva ciò che gli altri dicevano di lui. Parlava lingue straniere. Era versatissimo nell’alchimia. Mangiava impunemente la rucola e la briona. Molte cose non me le disse. Su molti problemi, di difficile interpretazione, fu evasivo e reticente…”.

Ma tutto ciò non basta. Lilith Miserocchi e Adamh Levi-Menendez vissero insieme e fu la giovane che mise sulla strada della ricerca e della verità il dottore. Lilith, era stata iniziata agli arcani dalla nonna materna, ebrea fiamminga, che in prime nozze aveva sposato un capitano olandese di nome Jacob Haussen, nativo di Eukhisen, un piccolo paese a poche miglia da Amsterdam. Il capitano Haussen, che era interessato all’arte medica, ma ancor di più era versato nell’alchimia, aveva ricevuto in dono da uno scozzese di nome Alex Seton, una piccola quantità di polvere bianca. La chiamava: l’alkaest. Questo prodotto era la “tintura”, la “medicina”. Con una piccolissima dose di questa polvere si potevano guarire tutti i mali. Si poteva riportare il malato alla salute primigenia ed assicurargli un perfetto stato di benessere, fino all’ultimo giorno in cui il Supremo l’avesse revocato a sé. Inoltre, il solvente (alkaest, ma poteva avere altre denominazioni), era un sole celestiale, e se ad usarlo erano i sapienti, era possibile disciogliere i corpi terrosi dei metalli ed estrarre da questi, il più nobile elisir dei filosofi.

Certamente, il dott. Levi-Menendez, effettuò alcune trasmutazioni. Non si arricchì, né ricercò il successo e la fama. Una piccola quantità di quell’oro alchemico è ancora presente. Fatta saggiare, alla coppellazione risultò di ventitré carati con un residuo di argento. Ho voluto rivisitare questa storia perché ho dei buoni motivi per farlo. Inoltre gli arcani lasciano scoprire una nuova dimensione dell’anima. Ma quante domande giacciono senza risposta: Cos’era l’acetum con il quale i romani frantumavano le rocce? Che cos’era la “pietra di luce”, che permetteva ai popoli del nord, la navigazione nelle notti senza stelle? E l’antica, misteriosa, incomprensibile, celeste, benedetta, una e trina, universale pietra dei sapienti, che fine ha fatto?

Enzo Pirroni