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29 maggio 1278 – L’imperatore Rodolfo d’Asburgo cede definitivamente la Romagna al papa


29 Maggio 2024 / ALMANACCO QUOTIDIANO

Il 29 maggio 1278 l’imperatore Rodolfo I d’Asburgo scioglie le città della Romagna dal giuramento di fedeltà che egli stesso aveva ottenuto nel novembre 1275. Con questo atto termina la secolare disputa fra papato e impero sulla sovranità degli antichi domini dell’impero romano che, unici superstiti in un’Italia ormai quasi tutta dei Longobardi, si era chiamata Romània e che aveva la città esarcale di Ravenna quale capitale imperiale. Già nel 754 la Chiesa di Roma era riuscita a farsi cedere Esarcato e Pentapoli da Pipino il Breve, padre di Carlo Magno, che le aveva strappate ai Longobardi. E i papi accampavano anche la donazione di Costantino, di cui ancora nessuno sospettava la falsità. Ciò nonostante non erano mai riusciti a far valere le loro pretese.

Finchè la rovina degli imperatori svevi Hohenstaufen aveva loro spianato la strada. E’ vero, la Parte Ghibellina in Italia era ancora forte, sebbene l’impero fosse rimasto senza guida per ben 28 anni, dalla deposizione di Federico II da parte di papa Innocenzo IV nel 1245 all’elezione di Rodolfo I nell’ottobre 1273.  Durante questo periodo vennero eletti Re dei Romani Enrico Raspe, Guglielmo II d’Olanda, Alfonso X di Castiglia e Riccardo di Cornovaglia. Nessuno di loro però riuscì ad esercitare concretamente il potere e men che meno intromettersi nella cose d’Italia. Qui, dopo la sconfitta e la morte di Manfredi nel 1266 e la decapitazione di Corradino di Svevia ultimo Hohenstaufen il 29 ottobre 1268, a farla da padrone era Carlo d’Angiò.

Clemente IV incorona re Carlo, affresco nella Tour Ferrande a Pernes-les-Fontaines

Anche troppo, per i gusti dei pontefici, sempre attenti a che nessuno, sebbene “amico”, accumulasse eccessiva grandezza. Ma anche a Roma le cose non eran semplici. Nel giro di meno di due anni si erano visti cinque papi: Gregorio X, che morì sui primi del 1276, Innocenzo V, Adriano V, Giovanni XXI, e Nicolò III eletto il 25 novembre del 1277. Fin dal 1273 Gregorio X si era dato da fare per ristabilire in Germania l’Impero e un minimo di stablità con la persona di Rodolfo. Nicolò, sebbene venisse dalla guelfissima casata degli Orsini, la vedeva allo stesso modo.

Carlo re di Napoli e di Sicilia, ormai senza rivali, aveva l’Italia in pugno. Era infatti Senatore a Roma, in Toscana Vicario Imperiale e Signore diretto o indiretto di ogni città guelfa. Ma sebbene feroce e ambizioso, era anche abbastanza intelligente da non essere ingordo. Quindi, capita l’antifona, non volle dispiacere al Pontefice e depose la Senatoria di Roma, cedette il Vicariato di Toscana, e soddisfece anche in tutto le richieste di Rodolfo Re de’ Romani.

Il quale, a sua volta persona accorta e pragmatica, non pretendeva poi troppo e anzi era disposto alle sue brave concessioni. Fra le quali, appunto, la cessione effettiva e definitiva alla S. Sede delle province romagnole. Rodolfo fu il primo imperatore della casata d’Asburgo che sarebbe rimasta sul trono fino al 1918. Fu uno dei sovrani più amati del medio evo e Dante, pur non stimandolo più di tanto, gli concesse un posto nel Purgatorio, anche se a fianco del rivale Ottocaro II di Boemia, da lui sconfitto e poi ucciso dai suoi nella battaglia decisiva per la corona a Marchfeld il 26 agosto 1278.

 

Stemma antico dei Conti d’Asburgo

La sua lettera datata in Vienna al 29 maggio 1278 fu inviata alle città che furono degli Esarchi a mezzo di Gottifredo Preposto Soliense. Il giuramento che avevano prestato all’impero venne quindi formalmente cassato da Gottifredo in Viterbo l’ultimo di giugno, “scrivendone ad ogni città perchè alla S. Sede ubbidissero”, come ricorda Luigi Tonini nella sua Storia di Rimini (vol. III). “E il Pontefice prese possesso di ciascuna, e mandò Conte in Romagna Bertoldo Orsino suo nipote, nominando insieme Legato per Romagna, Marca, Toscana, e Lombardia, l’altro nipote Fra Latino, detto il Cardinale Ostiense. La quale cessione così avvenuta in favor della Chiesa fu ratificata da Rodolfo nel febbrajo 1279 col consentimento de’ Principi dell’impero”.

Il papa inviò pertanto “Fra Giovanni da Viterbo dell’Ordine de’ Predicatori a riceverne per la S. Sede il formale possesso”. La lettera diretta al Podestà, Consiglio e Comune di Rimini data al 22 giugno 1278. “In conseguenza di che molte riconobbero l’alta sovranità del Pontefice tosto e liberamente; alcune con riserva; altre si ricusarono”. Rimini accettò di sottomettersi, nonostante avesse in quel momento un Podestà ghibellino. Ma era l’ultra moderato Guido dei conti Guidi da Romena, che non per nulla si era guadagnato l’appellativo di “Guido Pace”. Il 27 luglio il Podestà assieme al Consiglio tutto, presente il capo guelfo Malatesta da Verucchio, quello ghibellino Montagna di Parcitade “ed altri molti” prestarono ubbidienza alla Chiesa “con riconoscersi dipendenti dalla medesima in tutto che dipendenti erano dall’Impero. Così restando salve le franchigie loro, poco dovea importare a’ nostri se il Canone fosse a pagarsi piuttosto alla Chiesa che all’ Impero, e osservare a favore di questa quanto tenuti erano a quello”.

Ancora Tonini: “E che siffatte franchigie si mantenessero salve n’è prova la solenne dichiarazione che a’ 18 settembre dell’anno stesso, giorno di Domenica, fecero nella Chiesa Cattedrale Giovanni d’Arduino e Martino Monaldi Sindaci del Comune, quando incaricati a prestare a nome della Città e del Consiglio il giuramento di ubbidienza alla Chiesa ed a Papa Nicolò III, con precedente atto solenne protestarono dinanzi ai Nunzi Apostolici Guglielmo Durante e Fra Lorenzo da Todi, e alla presenza del Vescovo, del Preposto, e del Capitolo, e de’ più notabili Ecclesiastici della Diocesi, di operar ciò senza pregiudizio alcuno dei privilegi e delle consuetudini della città; dichiarando espresso che jura dicte civitatis, teritorii, districtus, et pertinentiarum ipsius, serventur inlesa. Indi giurarono”:

Stemma originario degli Orsini

Dalle parole ai fatti: Bertoldo Orsini, primo Conte di Romagna per la Chiesa, giunto forse in ottobre, “fece atterrar tosto, per attestazione dell’Annalista di Cesena, le Fortezze de’ Capi faziosi all’oggetto di toglier cagione e modo a future guerre. E il Vecchiazzani aggiunge, che sì in Rimini come in Cesena volle la Rocca, e vi pose il Pretore. Qui fu messo un tal Sante di Manente da Spoleto”.

Quale fosse la Rocca di Rimini pretesa dal Conte non è chiaro, dal momento che castel Sismondo era ancora di là da venire e sul suo luogo c’erano solo le case dei Malatesta, ancorchè fortificate come del resto quelle dei nemici Parcitade al lato opposto del centro città, presso porta San Tomaso cioè l’odierna piazza Ferrari. Rocche in città all’epoca non esistevano: forse si trattava della “Castellaccia”? La vetusta fortificazione dei Duchi “bizantini” di Rimini era ancora in funzione nel quartiere che da essa prese il nome? O era invece la Scolca, che fin dalle guerre con i Longobardi sorvegliava la città dall’alto del colle di Covignano?

(Nell’immagine in apertura: statua sul sepolcro di Rodolfo I d’Asburgo nel Duomo di Spira – Ludwig Schwanthaler, 1843)