13 agosto 554 – Giustiniano esalta il gran 90enne Liberio poco prima della morte a Rimini
13 Agosto 2024 / ALMANACCO QUOTIDIANO
Quando Luigi Tonini ne trascrisse l’epigrafe, la sua sepoltura non esisteva più, così come la cattedrale di Santa Colomba che l’aveva ospitata per 1.300 anni. Era la tomba di Pietro Marcellino Felice Liberio, uno degli ultimi grandi personaggi di Roma. O uno dei primi protagonisti del medio evo, secondo una prospettiva di cui i contemporanei non avrebbero compreso nulla. Perchè nel 554, quando il 13 di agosto l’imperatore Giustiniano firmò la sua Pragmatica sanctio pro petitione Vigilii, nessuno si sognava che l’impero romano fosse già caduto da 78 anni. Anzi, tutti erano del assolutamente certi che fosse più vivo che mai, un anno dopo la definitiva vittoria sugli Ostrogoti, debellati dall’Italia dopo 18 anni di terribili guerre.
Con quell’atto, “su richiesta di papa Vigilio”, si sancivano appunto il ritorno dell’Italia sotto il dominio diretto dell’impero e la cancellazione del sistema amministrativo e patrimoniale instaurato dai Goti. La Prammatica sanzione sorvolava sul fatto che papa Vigilio si trovasse in quel momento non a Roma ma a Costantinopoli e non di sua volontà, ma prigioniero a causa della disputa sui Tre Capitoli. Fra tante disposizioni confermava a Liberio, vir gloriosissimus, le terre che aveva in “Campania” presso Alatri, un tempo di tal Marciano e poi ricevute dal re goto Teodato. Il lodato Liberio doveva ora riorganizzare le province riconquistate.
Dove e quando Liberio nacque non è noto. Si suppone una data intorno al 465; quanto la luogo, si oscilla fra Roma, la Liguria dove era cresciuto il suo parente Rufio Magno Fausto Avieno (prefetto del pretorio per il re goto Atalarico) o la stessa Rimini dove poi fu sepolto assieme alla moglie Agrezia (o Agressia); suo parente era anche Anicio Probo Fausto (console con Odoacre, patrizio e prefetto con Teodorico). Non doveva però appartenere all’aristocrazia senatoria romana; un nobile sì ma di provincia, di cui si è ipotizzata anche un’origine ravennate.
Iniziò la sua carriera amministrativa sotto Odoacre re degli Eruli. Quando questi fu sconfitto da Teodorico il Grande una prima volta nel 489, Liberio si rifiutò di collaborare con i Goti finché il re era ancora vivo. Odoacre fu poi ucciso da Teodorico nel 493 e il nuovo re apprezzò a tal punto la lealtà di Liberio che lo nominò subito Prefetto del pretorio d’Italia: come dire primo ministro. Correttezza istituzionale, integrità morale, altissima competenza amministrativa e anche una certa abilità militare: Liberio possedeva tutte le migliori doti richieste a un grande funzionario imperiale e ne darà tantissime prove durante la sua lunghissima vita, nonostante l’edificio di Roma si stesse sgretolando inesorabilmente.
Lodarono Liberio sia Cassiodoro che Ennodio fin da quando dovette gestire un’operazione delicatissima: trasferire un terzo delle terre degli abitanti dell’Italia del nord ai Goti di Teodorico, per permettere loro di stabilirsi. Ci riuscì talmente bene che non solo sia Goti che Romani si ritennero soddisfatti, ma le produzioni dell’Italia – oggi diremmo il pil – addirittura aumentarono, andando a rimpinguare anche il gettito fiscale.
Dopo sette anni, nel 500, Teodorico gli tolse la Prefettura d’Italia per affidarla a Teodoro. Non per retrocederlo, ma perchè ne aveva bisogno altrove; intanto lo nominò patrizio. Papa Simmaco quando si trattò di nominare il nuovo arcivescovo di Aquileia ritenne di doversi consultare con Liberio. Nel 507 suo figlio Venanzio fu nominato console, poi comes domesticorum vacans: una specie di capo di stato maggiore.
Nel 510-511 Liberio fu nominato Prefetto del Pretorio delle Gallie, governando la Provenza che era rientrata da poco sotto il controllo di Teodorico. Anche qui lasciò un ricordo positivo. Nel 526 il grande Teodorico morì. Il nuovo re Atalarico, appena succeduto al nonno, confermò Liberio in Gallia. Il funzionario fu il primo firmatario laico degli atti del secondo concilio di Arausio (Orange), datati 3 luglio 529; in quello stesso giorno dedicò una basilica costruita in quella città. Accolse ad Arelate (Arles) il vescovo Apollinare di Valence. Intanto faceva costruire il protocenobio di San Sebastiano, un monastero che esiste tutt’ora nel territorio di Alatri; è pertanto probabile che avesse già delle terre nella zona.
Risale a questo periodo un “miracolo” di cui fu beneficario dopo uno scontro contro i Visigoti. Riporta Luigi Tonini: “E fu che caduto in una imboscata fatta dai Goti egli restò mortalmente ferito da un colpo di lancia. Perchè abbandonato da’ suoi, come seppe meglio, non ostante la perdita di molto sangue che sgorgava dalla ferita, potè percorrere lo spazio di 500 passi e giungere ad un villaggio a due miglia circa da Arles; dove disperando della vita mandò per S. Cesario; e questi accorsovi prontamente lui trovò in tal languore, che più non conoscea chi gli era d’ intorno. Ma, all’avvicinarsi del santo Vescovo, il moribondo, per quanto ne raccontava egli stesso, sentì destarsi da voce più che umana, che della presenza di Cesario avvisavalo. Per la qual cosa, aperti gli occhi, e visto il buon Servo di Dio, venne ispirato a raccogliere un lembo della veste di lui ed appressarlo alla ferita. Lo che fatto, il sangue ristagnò, e tanto vigore gli tornò nelle vene, che avrebbe potuto rimettersi in viaggio se gli astanti glie lo avessero consentito”.
Nel 533 fu richiamato a Ravenna. Oltre al titolo di Prefetto gli fu conferito quello di patricius praesentialis, fra i più alti gradi dell’esercito. Cariche confermate dal nuovo re Teodato nel 534; che gli concesse anche metà delle terre di un certo Marciano. Quindi lo inviò con altri senatori come ambasciatori alla corte dell’imperatore Giustiniano I, dove avrebbero dovuto difendere il re degli Ostrogoti dalle accuse di maltrattamento di Amalasunta, la madre di Atalarico. Ma una volta a Costantinopoli Liberio raccontò tutte le angherie che Amalasunta doveva subire da Teodato. E decise di non tornare più alla corte ostrogota. Tradimento? Opportunistico fiuto politico? O rifiuto della menzogna, come dissero i suoi contemporanei? “Uomo buono e retto, ed amantissimo della verità“, scrive di lui Procopio di Cesarea, non certo tenero nei suoi giudizi.
Fatto sta che Giustiniano, ennesimo estimatore di Liberio, nel 538-539 lo inviò ad Alessandria come praefectus augustalis, cioè governatore dell’Egitto, per indagare sulle accuse di assassinio del diacono Psoe, economo della chiesa alessandrina, avanzate contro il predecessore, l’augustale Rodone, il patriarca Paolo e il vir inlustris Arsenio; il primo fu inviato a Costantinopoli per essere processato, il secondo fu esiliato e il terzo messo a morte.
Seguirono fasi confuse; attorno al 542 Liberio dovette contendere la carica di augustale a Giovanni Lassario, il quale dopo alcuni torbidi perse la vita. Liberio fu richiamato allora a Costantinopoli e processato; fu assolto, ma Procopio riferisce che l’imperatore lo multò in segreto.
Nel 549 Liberio fu nominato, per due volte, comandante di una forza di spedizione in Italia contro gli Ostrogoti, ma l’imperatore cambiò idea entrambe le volte e il contingente non partì. L’anno successivo, quando i Goti invasero la Sicilia, Giustiniano fece rapidamente allestire una flotta e ne affidò di nuovo il comando a Liberio. Questa volta egli partì, passò Cefalonia e penetrò nel porto di Siracusa; non riuscendo ad assediare i Goti presenti in città, si spostò a Palermo, dove fu raggiunto dall’ordine dell’imperatore di tornare a Costantinopoli, in quanto giudicato troppo vecchio e inesperto per il comando affidatogli, sostituendolo con l’armeno Artabane. Qui le versioni contrastano: secondo alcuni Liberio tornò nella capitale e Artabane sconfisse i Goti. Secondo altri (Procopio, De Bello Gotthico, L. III. c. 36-37) invece Artabane fu fermato in mare da una terribile burrasca e Liberio, ignaro di essere stato rimosso, proseguì la missione fino a liberare l’intera Sicilia.
Nel 552 fu messo a capo di un contingente inviato in Spagna ad aiutare il nobile visigoto Atanagildo, ribellatosi contro il re Agila I; nel maggio del 553 era già tornato a Costantinopoli, dove partecipò alle riunioni con papa Vigilio.
La citazione come vir gloriosissimus nella prammatica sanzione di Giustiniano del 13 agosto 554 è l’ultma che vede il patrizio Liberio in vita. Le parole seguenti su di lui sono quelle della lapide funeraria collocata dai figli nella cattedrale riminese di Santa Colomba:
«Humano generi legem natura creatrix
Hanc dedit ut tumuli membra sepulta tegant
Liberii soboles patri matrique sepulchrum
Triste ministerium mente dedere pia
Hic sunt membra quidem sed famam non tenet urna
Nam durat titulis nescia vita mori
Rexit romuleos fasces currentibus annis
Successu parili gallica iura tenens
Hos non imbelli pretio mercatus honores
Sed pretium maius detulit alma fides
Ausoniae populis gentiles rite cohortes
Disposuit sanxit foedera iura dedit
Cunctis mente pater toto memorabilis Aevo
Ter senis lustris proximus occubuit
O quantum benegesta valent cum membra recedunt
Nescit fama mori lucida vita manet»
«La natura creatrice diede al genere umano questa legge:
che i tumuli ricoprano le membra sepolte.
Per questo i figli di Liberio diedero al padre e alla madre
con animo pio un sepolcro quale triste servizio.
Qui vi sono i corpi ma l’urna non contiene la reputazione,
infatti la vita, inconsapevole di morte, dura coi titoli.
Resse i fasci romulei nel corso degli anni
tenendo il diritto gallico con eguale successo.
Ottenne questi onori col valore in guerra
ma una ricompensa maggiore ottenne la sua fedeltà.
Ai popoli d’Italia distribuì le coorti gentilizie
il padre, degno di eterno ricordo,
e morì vicino ai novant’anni.
O che grande valore hanno le imprese meritevoli quando il corpo sparisce:
rimangono una fama immortale e una vita specchiata».
(nell’immagine in apertura: i santi Mercurio di Cesarea e Demetrio d’Antiochia)