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Gli ultimi due libri di Carlo Cervellieri "Chius ‘na porta u s’ivra un purtón" e "I murales di Saludecio"


I portoni e i murales a Saludecio parlano dialetto


8 Aprile 2024 / Paolo Zaghini

Carlo Cervellieri:

“Chius ‘na porta u s’ivra un purtón” La Piazza

“I murales di Saludecio” La Piazza

Nel giro di pochi anni Carlo Cervellieri, con questi due, ha dato alle stampe sette libri. Epicentro della sua attenzione in tutti i volumi l’amato paese natale: Saludecio in Valconca. Due di questi Chiamamicitta.it li ha segnalati: “Saludecio. Com’era. Com’è” (La Piazza, 2017) e “Iscì per mod da dì” (La Piazza, 2020). Cervellieri ha la capacità eclettica di unire nei suoi testi poesie dialettali e in lingua italiana, fotografie con immagini storiche e contemporanee di Saludecio.

Scrive don Tarcisio Giungi, parroco di Saludecio, nella sua presentazione del primo volume: “Questi scritti sono vere poesie perché evocativi: leggendoli, la mente vola, immagina, colora, insomma va oltre. Ed è proprio questo lo specifico della poesia: non descrivere semplicemente, ma fare cantare l’anima. Questo libro è un canto d’amore alla vita in tutte le sue sfaccettature: dalle storie di paese ai luoghi cari, dai personaggi ‘coloriti’ ai fatti vissuti”.

Il libro è diviso in tre parti: 23 poesie in dialetto, 30 in italiano, e una terza fotografica dedicata alle porte e portoni del Paese.

I testi in dialetto, privi di titolo, sono accompagnati da foto dei principali edifici e luoghi di Saludecio. Testi per lo più brevi, privi di traduzione in italiano (come ormai diversi autori da qualche tempo stanno facendo): e questo richiede un certo impegno nella lettura e nella comprensione delle rime.

“E mèr l’è cume l’òm / e mèr quand l’è incazèd / l’è nir, l’urla rabios, / l’arbèlta tut nicò, // e quand la jè pasa, / pièn pièn, l’amuchia l’còc-le, / pu, cume gnint e fusa / e bèscia e rinil.

Anche i testi in italiano sono poesie brevi, anche questi accompagnati da foto del Paese. Riprendo due delle tre strofe della poesia “Paese”: “Non sei Rimini, non sei Urbino / al raffronto frustolo, ma divino / qui ho vissuto, dove son nato / qui ho pianto, qui ho amato” (…) “Qui sono nato, erede di antica gente / qui ho giocato ricorda la mia mente / qui sono cresciuto nel tempo sì devoto / al santo che, chiamiam fratel Amato”.

La terza parte è interamente fotografica e sono immagini delle tante porte che nel Paese danno sulle anguste vie, alcune con i proprietari delle case ritratti a fianco del portone: “Ogni portone serba una storia, / solo alcuni si possono aprire, / custodi di antica memoria / affetti che han visto appassire.”

Giuliano Chelotti, nella presentazione delle fotografie, così descrive queste porte e portoni: “Il Municipio con teatro e biblioteca, la Chiesa parrocchiale del Santo Amato e la Chiesa dei Gerolominui: portoni di legno, pesanti, restaurati, verniciati, rinnovati, spalancati per le grandi occasioni. Poi grandi portoni con arco a sesto ribassato o a tutto sesto, impreziositi spesso da montanti di pietra o modanature di mattoni, sormontati da lunette in ferro battuto e muniti di pesante battente. Sono gli ingressi dei palazzi nobiliari o della borghesia ottocentesca, un lungo elenco di famiglie in gran parte trasferite o assorbite da altre: Magi, Marangoni, Albini, Morosi, Giovanelli, Riminucci, Ricci. E di seguito porte e portoni squadrati, dalle semplici forme, verniciati di recente o dai colori ormai opachi, sbiaditi dal tempo, di case disabitate. E’ l’altra faccia del borgo rinato nel dopoguerra, dopo i bombardamenti subiti, per decenni ricca di negozi, attività commerciali, luoghi di ritrovo, caratterizzati dalla classica saracinesca di metallo”. E termina Chelotti: “Quando una porta si chiude un’altra si apre, se non addirittura un portone! Un invito a guardare al futuro, ad andare oltre, mentre spesso ci si abitua a guardare tanto a lungo e con rimpianto la porta chiusa dietro di sé, da non riuscire a vedere quella nuova che si apre davanti”.

Il secondo libro invece è una specie di guida ai murales dipinti sui muri delle case del borgo di Saludecio. Anche qui fotografia del murale e testo poetico in dialetto di Cervellieri, pubblicate per anni sul mensile “La Piazza”. Una tradizione quella dei murales di Saludecio iniziata nel 1991 in occasione di Ottocento Festival e durata sino al 2009. Murales in sintonia con il Festival: le invenzioni dell’800. Fra queste la pizza Margherita, l’aliante, il reggicalze, il cappello Borsalino, la fotografia, la Croce Rossa, il cinema, la locomotiva, il quotidiano, la carta igienica, i blue jeans, il fumetto, la macchina per scrivere, la lampadina, il telefono, la Coca Cola, il francobollo.

Scrive Giuliano Chelotti, animatore per anni di Ottocento Festival: “Questo ha permesso di spaziare dalle scoperte più importanti per il loro valore tecnico-scientifico a quelle più curiose e suggestive ma non prive di valore per la loro influenza sui costumi e sulla società”. Sono 49 le opere dipinte sulle case dai vari artisti di ArtPerC (Arte per Comunicare), l’associazione di Castellabate, sotto la direzione di Marisa Russo. Un vero e proprio museo “en plein air”, oggi un patrimonio importante per la promozione e la valorizzazione del borgo.

Sempre Chelotti: “Va dato il dovuto merito a Carlo Cervellieri di pubblicare le sue poesie dialettali dedicate a questi muri dipinti, accompagnate ciascuna da l’immagine fotografica del murale, insieme ai dati illustrativi su invenzione, inventore, autore dell’opera pittorica. Un modo didascalico di offrire insieme alla poesia anche un supporto descrittivo per accompagnare curiosi e turisti alla scoperta dei murales”.

“Aguza j’och. Guèrda, leg, l’è puesia / i disegn fat ti mur, / en fa mèl la fantasia, / coj se t’po li sfumadur. // An vria pu che t’ava pens / che guardand gnint i svela, / st’aguz j’och, i toca i sens / ment insugna, e pu vola”.