Parigi apre le Olimpiadi con lo spettacolo più felliniano di sempre
28 Luglio 2024 / Lia Celi
Chissà se gli olimpici riminesi in trasferta a Parigi – Lucia Bronzetti, Alessio Crociani e Giulio Ciotti, l’allenatore di Gimbo Tamberi – hanno percepito un’aria di casa nella cerimonia d’apertura di venerdì scorso. Io vedevo Fellini spuntare da tutte le parti. Si trattava di un omaggio alla storia della Francia e alla magia di Parigi, ma avrebbe potuto benissimo essere un commosso tributo al nostro Federico, una colossale e iperbolica carrellata di citazioni dei suoi film più iconici, da Giulietta degli spiriti al Casanova passando per il Satyricon, con un pizzico di Città delle donne e di Ginger e Fred.
Per quanto ne so, l’unica cosa che lega Fellini alle Olimpiadi è una coincidenza: La dolce vita vinse la Palma d’oro a Cannes nel 1960, lo stesso anno dei Giochi di Roma, considerati fra i più belli della storia, quelli di Abebe Bikila, Wilma Rudolph, Livio Berruti e del debutto di Cassius Clay. Ma lo spettacolo e la meraviglia hanno un’alchimia che va oltre il tempo: il giovane direttore artistico di Parigi 2024, l’attore e regista teatrale Thomas Jolly, si porta dentro con tutta evidenza l’imprescindibile lezione felliniana e, consapevolmente o no, l’ha applicata su vasta scala, rappresentando la grandeur come l’avrebbe messa in scena il Fellini del Casanova, con costumi fastosi, artifici mirabolanti, zero paura del grottesco e del «cattivo gusto».
Vabbè, diciamolo in modo più semplice e comprensibile, senza tirare in ballo il sommo genio del cinema: se la cerimonia inaugurale delle Olimpiadi ha fatto incavolare Matteo Salvini, che ha lamentato l’«insulto ai cristiani» (ha scambiato il fantasmagorico tableau vivant del Convito degli dei, con un pittoresco Bacco dipinto di blu, per una parodia dell’Ultima cena), significa che era tutto okay. Sicuramente più okay della situazione dei trasporti in Italia (competenza del suo ministero) che strappa quotidianamente agli utenti espressioni e interiezioni riguardo al Cristianesimo molto più blasfeme delle trovate di Thomas Jolly.
Strano – o forse no – che il pigmalione del generale Vannacci non abbia rilevato l’unico vero neo della cerimonia: avere messo in secondo piano le rappresentanze degli atleti di tutto il mondo. La sfilata di tanta bella gioventù, fiera e sorridente, proveniente da ogni angolo del pianeta, in tutte le possibili sfumature di colori e di tenute, ogni quattro anni ci dà un bagno di consolazione e di fiducia nel futuro. Invece li abbiamo visti passare frettolosamente, assiepati sul ponte di barconi e barchini sballottati dalle onde della Senna, coperti da impermeabili per ripararsi dalla pioggia battente, e i nove atleti di San Marino non sembravano meno derelitti degli otto che gareggeranno per la Palestina. Mentre si sbracciavano per salutare il pubblico, più che sportivi che stanno vivendo la trasferta più esaltante della loro vita sembravano migranti felici di essere stati salvati.
Salvini non se n’è accorto, forse perché non siamo più in campagna elettorale e certi argomenti non fanno effetto. Del resto alcuni di quei ragazzi e ragazze provengono dagli stessi Paesi da cui tanti fuggono per sottrarsi alla miseria, alla guerra e alla persecuzione: Ghana, Niger, Afghanistan. Alle Olimpiadi partecipa anche la Squadra dei rifugiati, in rappresentanza dei cento milioni di sfollati del mondo – la premiazione dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati per il suo impegno per restituire dignità attraverso lo sport a chi ha dovuto abbandonare la sua terra, è stato uno dei momenti più alti della cerimonia, e dovrebbe renderci fieri, perché si tratta di un italiano, Filippo Grandi. Un cognome che, nel trionfo fellinesco della grandeur, ci ricorda che la vera grandezza forse oggi è un’altra cosa.
Lia Celi