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Se le città diventano prodotti non si possono permettere cicatrici della storia e tanto meno della cronaca


E allora Francesca non chiamatela da Rimini


3 Novembre 2024 / Lia Celi

Se non avete ancora visto Qui non è Hollywood, la fiction Netflix sul delitto di Avetrana, fatelo: è davvero un prodotto eccellente, sceneggiato e recitato in modo egregio, coinvolgente senza traccia di morbosità. La bravura degli attori, diretti con sensibilità, permette di empatizzare con tutti i personaggi della storia, ritratti come esseri umani e non come mostri. E a dispetto dei timori del sindaco di Avetrana, che ha chiesto e ottenuto la cancellazione del nome del paese dal titolo, la località e i suoi cittadini non vengono dipinti con colori negativi o diffamatori. La fiction ritrae un pezzetto di provincia italiana in cui potremmo riconoscere una frazione o un paesino della nostra zona, o di qualunque angolo d’Italia. Chi ne esce peggio siamo noi giornalisti, avvoltoi a caccia di scoop e violatori compulsivi della privacy altrui, ma la categoria ormai è abituata a essere vilipesa in film e sceneggiati italiani – i reporter sono eroici e simpatici solo nei film americani.

Eppure un tribunale, che probabilmente non aveva visto la fiction, ha accolto gli scrupoli del sindaco, timoroso che Avetrana diventasse famosa in Italia e nel mondo solo per l’omicidio della povera Sarah Scazzi, e non per le sue eccellenze archeologiche, per le feste patronali e le spiagge.

Santo cielo, allora noi di Rimini cosa dovremmo fare? Da secoli il nome della nostra città è legato a un efferato femminicidio, immortalato, da Dante in poi, in quadri, drammi e opere liriche. Prima di diventare una metropoli turistica, all’estero Rimini era conosciuta soprattutto per essere stata il teatro della morte di Francesca da Polenta coniugata Malatesta, ed evocava tresche segrete, crudeltà, pugnalate e tutto quel che ci attizza nei podcast di true crime.

Vi immaginate se Jamil Sadeghovaad si rivolgesse ai giudici per ottenere che Francesca non fosse più «da Rimini» (il che sarebbe anche corretto, visto che tecnicamente l’infelice eroina non proveniva da questa terra, ma vi era arrivata col matrimonio)? Basta, chiamiamola solo Francesca, o semmai Francesca da Ravenna, è ora di finirla di associare Rimini a un caso, ancorché celeberrimo, di violenza sulle donne – anche perché, purtroppo, la cronaca nazionale continua a fornircene di più freschi da un capo all’altro della penisola. Ma mentre lo scrivo, mi rendo conto che oggi la cosa non sarebbe nemmeno tanto assurda, la cancel culture ci sta abituando a censure retrospettive anche più insensate.

Il problema è che anche le città sono diventati prodotti da vendere, devono proporsi come i resort, attraverso immagini attraenti e rassicuranti da brochure, senza lati oscuri, senza scheletri nell’armadio. Mica facile, in un Paese carico di storia come il nostro, dove ogni contrada può vantare un’eccellenza gastronomica, un affresco o un ipogeo etrusco, ma negli ultimi duemila anni è anche stata teatro di uno sbudellamento, su piccola o grande scala: un delitto, un regolamento di conti, una strage, una battaglia, un massacro.

Rimini e il suo circondario offrono un po’ di tutto agli amanti del «turismo dell’orrore» (che non è un’invenzione della nostra epoca cinica e bara, in Europa c’era già nell’Ottocento). Accanto alla gloria dell’arco e del ponte, al fascino del mare e della spiaggia, alle bellezze dell’arte e dell’architettura, ci sono anche le cicatrici di una storia lunga e a tratti violenta, antica e recente, insomma, tutto ciò che distingue una città vera da un parco a tema. E noi riminesi abbiamo imparato a tenercele con dignità. E a esserne perfino orgogliosi.

Lia Celi