Home___primopianoAlberto Miliani da Rimini, il mediomassimo gentiluomo che perse le Olimpiadi per un bacio

Ricco, colto, bellissimo, amante del buon vivere, trovò anche modo di creare le targhe biancazzurre della Repubblica di San Marino


Alberto Miliani da Rimini, il mediomassimo gentiluomo che perse le Olimpiadi per un bacio


17 Luglio 2023 / Enzo Pirroni

Alberto Miliani era, allorché si avvicinò casualmente, al mondo del pugilato, un bellissimo ragazzo di buona famiglia. Il ramo paterno prendeva origini da quel Pietro Miliani che, nel 1782, aveva fondato l’omonima cartiera in quel di Fabriano. Gente ricca che per generazioni si lasciò trasportare da un furioso turbinio imprenditoriale, stando ben avvinghiata alla solidezza realistica; gente che stimava essere una virtù la propria perenne insoddisfazione unita alla volontà di nuovi acquisti. Certo, i Miliani crearono un impero e lo fecero, c’è da scommetterci, con l’egoismo, l’arroganza, l’avidità che furono caratteristiche comuni  di tutti i pescicani, di tutti i boss, di tutti i capitani d’industria, nel momento più selvaggio del capitalismo. Il nonno di Alberto, Giovanni, staccatosi dal ramo fabrianese, divenne un ricco possidente delle Balze di Verghereto. Alto ed imponente, di una maestosità monumentale, viveva in un vetusto, squadrato palazzo di pietra. Da lì badava alla conduzione dei suoi undici poderi. Fondi che erano dislocati in varie località della vallata tra Verghereto, Capanne, Moggiano, Corezzo, Pieve Santo Stefano…

Si diceva, addirittura, che le fiere non avessero inizio se non dopo che tutti gli armenti del signor Giovanni si erano ammassati sul campo. La sua maestosità s’accordava ad una vitalità esuberante, ad una pugnace gagliardia.  Era davvero un uomo libero e lo era perché la ricchezza da lui posseduta lo preservava dal  mettersi in discussione e dal misurarsi con la stragrande maggioranza dei suoi simili. In quanto la libertà non sta soltanto nello scegliere tra bianco e nero, ma nel sottrarsi a questa scelta obbligata. Un uomo solido, con i piedi ben piantati sulla terra, un uomo che sapeva con certezza che ogni esistenza si conclude e si risolve, inesorabilmente, nel mero trascorrere del tempo.

Giovanni Miliani cercò di dare alle figliole ed ai figlioli una preparazione alla vita saggia e sensata. Non si sognò di chiedere ai figli di fare ciò che i figli non avrebbero mai potuto fare. Non si lasciò tentare dalla smania di arricchire il blasone famigliare con qualche vana laurea che avrebbe autorizzato i rampolli a nominarsi dottori in alcunché. Avvezzò, viceversa, la prole a disbrigare i più eterogenei affari, allontanandola per tempo da quell’accidia che come una tabe sembrava (in quei tempi) affliggere i discendenti dei rentiers

Il figlio Francesco, ereditata la propria parte di patrimonio, si accontentò di condurre una vita agiata evitando artatamente di covare maneggi e perfidie. Si sposò con Rosa Mengozzi di Sogliano sul Rubicone, una donna forte e volitiva, il cui padre aveva combattuto con Garibaldi a Bezzecca. Ebbero tre figli: Oscar, Gianni ed Alberto. I Miliani si erano, nel frattempo trasferiti a Spadarolo, una località a pochi chilometri da Rimini sulla via Marecchiese. Qui trascorsero una vita serena badando alla conduzione di alcuni loro poderi.

I figli crescevano bene. Oscar aveva appreso il mestiere di orologiaio (professione che esercitò per lunghissimo tempo). Appassionato di moto e di montagna, scappava in sella alla sua potente “Guzzi” verso le vette dolomitiche e qui si avventurava in arrampicate in parete, nella buona stagione, ed in spericolate discese sugli sci, in inverno. Gianni, dopo aver frequentato l’Accademia Aeronautica ed aver conseguito il brevetto di pilota perdette la vita (aveva ventiquattro anni appena) schiantandosi con l’aereo in avaria contro un monte nei pressi di Gorizia. Alberto, nato nel 1924 fu uno studente svogliato, si diplomò geometra, senza alcun entusiasmo.

Preferiva, di gran lunga la ginnastica artistica agli studi di estimo e di topografia. Romeo Neri (e chi se non lui?) era tornato in palestra nelle vesti di insegnante ed attorno a sé aveva radunato una folta schiera di promettenti giovanotti, tutti desiderosi di emulare, un giorno, i successi del loro maestro.

Alberto Miliani, frequentò la palestra e lì il suo corpo si plasmò irrobustendosi ed assumendo quelle forme perfette che lo avrebbero fatto diventare, a detta di tantissime, ora attempate signore, uno dei più bei giovani di Rimini. Elegante, educatissimo e rispettoso, spinto da un’incessante curiosità di sapere, Alberto Miliani, non fece fatica a farsi accettare da coloro, che all’epoca, rappresentavano l’intellighentsia cittadina.

Entrò pertanto nella cerchia di quegli intellettuali che erano Guido Nozzoli, Floriano Biagini, Demos Bonini, Sesto Menghi, Sergio Zavoli, Marino Vasi, Glauco Cosmi, Nicola De Nittis, Acrata (Tino) De Giovanni. Il loro punto d’incontro era l’elitario bar di Raoul sul Corso Giulio Cesare. Capitò anche, mentre su Rimini infuriavano i bombardamenti, che “il conte rosso” Galvano della Volpe, s’intrattenesse con i giovani antifascisti riminesi ed il luogo prescelto per codesti “convegni segreti” diventasse il canneto del podere di Alberto a Spadarolo. Qui, come romantici cospiratori, ascoltavano le infrascate elucubrazioni filosofiche dell’avvincente maestro aventi per oggetto le tematiche del marxismo.

Da sinistra: Enzo Pirroni, Gustavo Gaudenzi, Alessandro Mellini Sforza, Quarto Perazzini, Alberto Miliani (al centro col cappotto color cammello), Marino Vasi, Gianfrini

La madre di Alberto, signora garbata, ligia al proprio perbenismo borghese, da vera Hausedame, si lamentava col figlio: “Ma come – diceva – portare un signore di quel genere all’interno di un canneto? Senza fargli un po’ d’accoglienza, senza offrirgli un poco di recéption? Che figura mi fai fare? Cosa mai penserà di noi?”. Inutilmente il figlio cercava di spiegarle che il professore era un rivoluzionario, un uomo superiore che non dava nessun peso ai convenevoli. La signora Rosa, scuotendo il capo si ritirava, piena di rammarico, nelle proprie stanze.

Poi anche la guerra finì. Per Alberto iniziarono gli anni più belli. Riprese vita la stagione balneare. I locali notturni riaprirono, le migliori orchestre italiane si esibirono nei dancing che come funghi spuntavano uno dietro all’altro dal mare fino al colle di Covignano, toccando finanche l’estrema cisposa periferia. Rimini estiva, era tornata ad essere, più di prima, un agglomerato di maraviglie, una sentina di irrequietezza, un paradiso di flanérie . Tutti volevano divertirsi tra sobbalzi di pura schizofrenia (la gara di resistenza al ballo tenutasi all’Oriental Park) ed accessi di infantile semplicità. I “bagnanti”, frattanto, venivano quotidianamente rintronati dagli annunci, dagli slogans che il Publiphono, di Francesco Di Donato, spandeva per l’aere rovente. A quel tempo, Alberto Miliani, si presentava come un atleta magnifico. Non aveva addosso un’oncia di grasso, pareva una vera e propria statua naturale e viva. Come gli eroi della mitologia greca, Alberto, era alto, con le spalle ampie; la sua vita era stretta e tutti i muscoli parevano disegnati con anatomica precisione, tanto che si potevano discernere le giunture. Quando varcò la soglia del gym di Mario Magnani, l’ex campione dei welters capì immediatamente che quel giovane che parlava sottovoce usando le parole con aristocratica proprietà, era in possesso di una struttura fisica davvero eccezionale. Il suo stupore crebbe nel momento in cui si rese conto che, il ragazzo nelle mani teneva la dinamite.

Dopo un breve periodo di addestramento, Alberto Miliani salì sul ring. Con i suoi 81 chilogrammi  era un mediomassimo naturale ma è accaduto, non di rado, che si trovasse a combattere nella categoria superiore. Nell’immediato secondo dopoguerra, quando le palestre pullulavano e la boxe era col ciclismo lo sport più popolare, i maestri cercavano con bramosia, tra anfaneggiamenti e contorti rovelli, il campione che potesse rinverdire i fasti del ciclopico Primo Carnera. (Uber Bacilieri e Francesco Cavicchi stavano muovendo i primi passi nel barnum casereccio della boxe). Forse, Mario Magnani, nella sua inesausta ricerca della perfezione, era, come insegnante, inconsciamente avido di vedere applicato da un suo allievo il principio di Daniel Mendoza (tecnica, rapidità e punch contro la forza bruta) che tante soddisfazioni gli aveva procurato nella di lui lunga e gloriosa attività.

Alberto Miliani, seguito all’angolo da tanto maestro, salì sui rings dell’Emilia- Romagna, in povere riunioni allestite in occasione di sagre paesane e nei sottoclou dei grandi appuntamenti pugilistici che avevano come primattori Mitri, Milandri, Marini, Bondavalli. Avenne così che in una Rimini ancora invasa dalle macerie, nella sala del Palazzo Comunale, che in quei giorni si era trasformata in un toulouselautrechiano salon de la rue des Moulins, il nostro uomo venisse opposto ad un pugile locale di grande possa: “Cadinoun” era il soprannome col quale era unanimamente conosciuto costui nel labirintico, urbanisticamente scongegnato Borgo San Giuliano. Di professione faceva il facchino. Quotidianamente, con ripetitivo marionettismo golemico, s’ingegnava di trasportare le più svariate masserizie tra squallidi muri passando sulle smorte reliquie, recente  retaggio dell’infame tempo di guerra, senza alcuna speranza di redenzione che non fosse il bicchiere di vin rosso trangugiato all’infretta tra i fumi ed i grevi vapori di una povera taverna. 

Quando Alberto Miliani fece il suo ingresso tra le dodici corde, avvolto in una serica vestaglia di seta azzurra, i supporters di Cadinoun lo sbeffeggiarono pesantemente mettendo soprattutto in dubbio la di lui virilità. Nella sala surriscaldata tra lo sfavillio di nude lampade, volgari motteggi si riversarono sul raffinato pugile in vestaglia. Al “boxe” impartito, come al solito con assoluto autoritarismo, dall’onnipresente referee Gino Amati, Cadinoun, scomposto, con la bestiale irruenza di un orso che schiuma e diruggina le sanne, si gettò contro il raffinato, apollineo avversario. Fu un attimo. Il gancio destro di Alberto Miliani si abbattè sul mento del rude borghigiano che, con fragore crollò sulla stuoia disgregandosi in un marciume d’argilla.

Il 1948 era l’anno olimpico. Steve Klaus, commissario tecnico della nazionale italiana, convocò in squadra il pugile riminese, il quale, nei matchs di avvicinamento alla manifestazione londinese, riportò vittorie contro il pericoloso Krause a Innsbruck (Krause di lavoro faceva il tagliaboschi e quando strinse la mano di Alberto questa sparì inghiottita dalla zampaccia dell’austriaco) e contro il francese Mercier a Marsiglia.

Mentre la squadra olimpica si trovava in “ritiro” a Porto Recanati successe (questa naturalmente è la versione di Alberto), che mentre il nostro stava effettuando una passeggiata solitaria sulla spiaggia; nell’ultima delle ore canoniche dell’ufficio liturgico, in un tardo meriggio avvolto nella informe gelatina del silenzio torpido, allorché l’arenile svuotato di qualsiasi umana parvenza ritornava ad essere dominio assoluto dei gabbiani e dei loro inarrestabili mulinelli, una ragazza, bellissima, spuntata come per incanto, gli si parò d’innanzi. Era flessuosa di biondi capegli e con occhi azzurri senza fondo. Si guardarono.

Inconsapevolmente si trovarono abbracciati l’un con l’altra. Il galeotto, perfido ed ostile, perché in ogni tempo ed in ogni ambiente proliferano cortigiani cagliostreschi, capaci di ordire perniciosi raggiri, senza dubbio fu Natalino Rea, l’aiutante di Steve Klaus. Il malevolo spione si precipitò a riferire l’accaduto al commissario supremo, il quale cadde in un vero e proprio attacco isterico: “Come si permette quel bellimbusto riminese di prendersi simili confidenze con mia figlia!”.

Immediatamente Alberto Miliani venne cacciato dal “ritiro”, il suo nome depennato dalla lista dei probabili olimpici. Andò così che il nostro uomo non fece compagnia ai vari D’Ottavio, Fontana, Bandinelli, Zuddas, Formenti che tanto bene si sarebbero comportati sulle rive del Tamigi. Finì velocemente la carriera pugilistica di Miliani. Né avrebbe potuto andare diversamente. Troppo attento era all’incolumità della propria facies.

Troppo mondane le sue abitudini di vita. Uno come lui che si faceva confezionare gli abiti da sarti come Litrico o Caraceni, che calzava solide scarpe di cuoio inglese acquistate a Roma in via Condotti, che amava la vita notturna e le belle donne, fece presto a dimenticare i guantoni e non si lasciò tormentare dal rimorso per aver abbandonato la palestra. Si impiegò al Genio Civile ed in seguito ricoprì un ruolo importante in una ditta americana: la 3M che aveva sede a Minneapolis nel Minnesota ed era specializzata nella produzione di vernici rifrattive.

Ad Alberto Miliani si deve, tra l’altro, la realizzazione delle targhe automobilistiche (bianco-azzurre) tutt’ora in uso nella Repubblica di San Marino. Nel frattempo continuò a frequentare “i posti bene”. Nei prestigiosi, esclusivi locali di Bepi Savioli era di casa. Godeva dell’amicizia di quel vero gentleman che era Ivo Del Bianco, a Venezia pasteggiava presso la Locanda Cipriani  all’isola di Torcello. Fu, credo, all’Élephant Blanche di Roma che conobbe una delle più affascinanti donne del dopoguerra la quale, signoreggiata da subitanea irresistibile passione, lo seguì docilmente per tuffarsi nell’inverno lattiginoso della città malatestiana, prima di accasarsi altrove, convolando a nozze con un ricco hidalgo intimo del “generalisimo” Francisco Franco Bahãmonde.

Venduti i poderi paterni, Alberto Miliani si fece costruire dall’architetto Romolo Landi (ma il progetto era suo) la casa situata in Viale Doria, la stessa nella quale ancor oggi vive il figlio Gianni. Alberto, nell’ideare la propria abitazione, non partì dall’esterno (tra l’altro molto bello) ma dall’interno, dal luogo intimo della vita. Tutto lo spazio, gli stessi volumi esterni dell’edificio, paiono avvolti in un’aura di concretezza che coivolge il prato, gli alberi (Ho desiderio di stringere al corpo / i seni nudi delle betulle. / O folta torbidità boschiva!), il cielo. Allorché ci si trovava sprofondati nell’immensa poltrona della ricca, ordinatissima biblioteca si aveva immediatamente l’impressione che tutti i mobili, tutti gli arredi  fossero veri e propri strumenti della vita.

Qui, il nostro uomo, trascorreva con dignità ed autorispetto la stagione più amara, poiché: Vivere è attendere il sole / nei giorni di nera tempesta, / schivare le gonfie parole / vestite con frange di festa. Alberto cercava, da quel raffinato esteta che era, di godersi  la dose di arte e di armonia celate nelle cose, anche in quelle più banali ed insignificanti. Poi sopraggiunse la morte. Addio mio caro amico.

Enzo Pirroni