Andiamone fieri del nostro teatro e scriviamoci sopra “Amintore Galli” bello grosso
21 Agosto 2021 / Lia Celi
È una chiesa? È un museo? Un grande albergo? No, caro turista che interroghi il passante indigeno indicandogli la solenne mole dell’edificio che occupa il lato di piazza Cavour rivolto a occidente. È un teatro, come si può desumere (aguzzando la vista) dalla scritta in latino sulla facciata… Ehm, veramente no. Quella scritta, «aere civium ingenium ecc. ecc.» significa «con denaro pubblico e con l’ingegno di Luigi Poletti 1857». Spiega chi ha pagato l’edificio, chi l’ha progettato e quando è stato ultimato, non a che cosa serve.
Ci sono teatri che si dichiarano subito, così, senza giri di parole: il Duse di Bologna, l’Opera di Roma, il Carlo Felice di Genova, per citarne alcuni, lo portano scritto a chiare lettere sopra l’ingresso. Altri, come il Regio di Parma o la Scala di Milano, mostrano un’aristocratica reticenza, degna di leggendari templi della lirica che non hanno bisogno di presentazioni.
Ma in caso di necessità, a rivelare ai meno ferrati la loro destinazione sono le locandine che ne decorano il porticato, annunciando il cartellone della stagione in corso e i grandi eventi passati e futuri che si sono consumati sui loro augusti palcoscenici. È bello fermarsi davanti alle locandine, sbirciare i nomi degli artisti, segnarsi le date degli spettacoli più interessanti o mangiarsi le mani per essersi persi un’opera, un concerto o la performance attoriale di un mattatore di fama.
Ma il teatro di Rimini non concede nulla alla curiosità e all’interesse dei forestieri. Non solo non c’è scritto da nessuna parte «Teatro Amintore Galli», ma sue colonne non una locandina, un programma, un vecchio manifesto che faccia capire ai non riminesi a cosa serve quel maestoso e austero fabbricato, e dimostri che è un luogo di musica e di cultura vivo, pulsante e amato, il cui restauro ha dato lustro alla città ed entusiasmato il pubblico.
Accidenti, l’abbiamo attesa e desiderata così tanto, l’accidentata, rimandata e e travagliata resurrezione del nostro teatro cittadino, che le sue pietre dovrebbero gridare con orgoglio «Teatro Amintore Galli», a lettere gigantesche. E la sera dovrebbe accendersi sul tetto una scritta luminosa, come a Broadway, con chiavi di violino, ritratti stilizzati di Verdi e Puccini, le maschere della tragedia e della commedia, e chi più ne ha più ne metta, al diavolo la misura e la raffinatezza, siamo la città di Fellini e a due passi c’è la statua di un rinoceronte, o no?
Insomma, con tutto il rispetto per i soldi dei cittadini ottocenteschi e dell’ingegno di Luigi Poletti, sul teatro Amintore Galli dovrebbe esserci scritto il nome di Amintore Galli. Bello grosso. Anzi, grossissimo. Perché, fra le tante benemerenze del musicista di Perticara, c’è anche l’aver musicato nel 1886 l’Inno dei lavoratori, su testo di un giovanissimo Filippo Turati.
Una canzone che per molti anni fu proibita dalla pubblica autorità, se la cantavi in strada rischiavi la denuncia e perfino il carcere. «Su fratelli, su compagne, su venite in fitta schiera, sulla libera bandiera splende il sol dell’avvenir,» proclama il famoso incipit dell’Inno. E, più avanti, «l’esecrato capitale nelle macchine ci schiaccia, l’altrui suolo queste braccia son dannate a fecondar», versi purtroppo ancora di scottante attualità in un’estate costellata di morti sul lavoro e di episodi di caporalato.
A Rimini il tempio dell’intrattenimento culturale «per ricchi» è stato intitolato dopo la guerra che l’aveva distrutto non a un sovrano o a un Cigno musicale, ma a un artista che prestò coraggiosamente la sua ispirazione al canto di battaglia degli ultimi. È un dettaglio che esprime tutto lo spirito della nostra città, da sempre appassionato, contraddittorio, ribelle. Dovremmo andarne fieri.