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Il 21 marzo 1518 papa Leone X (Giovanni di Lorenzo de' Medici) concede a Verucchio il titolo di "città".  Come sottolinea Enrico Angiolini ("Statuta castri Veruchuli - Gli statuti quattrocenteschi di Verucchio", 2011), non si tratta affatto di un semplice titolo onorifico: la qualifica di "città" comporta per la culla dei Malatesta «la definitiva cessazione di ogni sua residua soggezione giuridico-amministrativa a Rimini». [caption id="attachment_458997" align="alignleft" width="2560"] Papa Clemente VII ritratto da Sebastiano Del Piombo[/caption] La disgregazione dello "stato riminese", che i Malatesta avevano governato e ingrandito a partire dal XIII secolo col "Mastin vecchio" proveniente proprio da Verucchio, aveva avuto inizio con la rovina di Sigismondo nel 1462. Dopo la cacciata dei Malatesta da Rimini e il breve dominio veneziano, la sempre insofferente Santarcangelo rammenta a Roma che il suo Vicariato è del tutto autonomo dalla Diocesi di Rimini. Il titolo di "città", però, sarà concesso ai santarcangiolesi solo nel 1828, quando davvero ormai è solo un riconoscimento simbolico. Gli altri castelli del contado vengono dati in feudo a questa o quella famiglia, sia per nepotismo, che per retribuire servizi resi ai pontefici. Benefici che spesso e volentieri vengono revocati dal successore, che provvede alla loro redistribuzione. E infatti, prosegue Angiolini, «Verucchio conobbe nuovi

Luigi Pasquini, pittore, scrittore, pubblicista, muore il 20 marzo 1977. Era nato il 13 febbraio 1897 a Rimini nel Borgo San Giuliano. È stato un punto di riferimento nel dibattito culturale riminese. Aveva stretto amicizia con Alfredo Panzini, ma anche con Marino Moretti, Manara Valgimigli e Antonio Baldini. Di recente alla sua figura sono state dedicate diverse iniziative. [caption id="attachment_458802" align="aligncenter" width="857"] Luigi Pasquini[/caption] Aveva studiato all'Accademia di Belle Arti di Bologna, dove si era diplomato nel 1916. Inizia giovanissimo un'intensa attività artistica, dedicandosi principalmente all'acquerello e alla xilografìa. Nel 1921 è presente alle Esposizioni Romagnole Riunite di Forlì: qui viene premiato con una medaglia di bronzo. Dagli anni Venti partecipa a tutte le più importanti mostre collettive riminesi, divenendo immediatamente il perno su cui gravitava la cerchia artistica ed intellettuale cittadina. Con le sue incisioni e disegni illustra pubblicazioni e riviste riguardanti Rimini e la Romagna, tra cui "Cronache azzurre" (1920), "La Vela" (1923), "Rimini, la più bella spiaggia del mondo, periodico estivo di cronaca mondana" che egli fonda e dirige nel 1925, il "Gazzettino azzurro", "II Corriere dei Bagni" (1924) e la "Pie", a cui collaborerà per anni con xilografìe per la copertina e con articoli e saggi. Nella pittura predilige l'acquerello, tecnica con la

"Se fosse un romanzo giallo, il caso di Massimiliano Iorio, Max per gli amici, sarebbe un racconto di Patricia Highsmith o un romanzo di Cornell Woolrich. Un noir in cui il destino è nascosto in agguato, pronto a balzare fuori e cambiare il corso di una vita, all'improvviso". Così Carlo Lucarelli in Mistero in Blu nel racconto Max. Il «caso dei pesciolini rossi». A Rimini il 19 marzo 1997 Massimiliano Iorio, impiegato comunale di 38 anni, muore nella sua abitazione di vicolo Santa Chiara. Il suo corpo viene ritrovato la sera del giorno dopo. La scena che si presenta agli investigatori è terribile quanto sconcertante. Max non aveva mai fatto mistero di essere gay, ma mai in vita sua si era travestito da donna. Invece qualcuno lo aveva fatto ritrovare con indumenti femminili indossati evidentemente a forza, compreso un paio di scarpe con tacchi a spillo di tre  numeri più piccole. [caption id="attachment_31292" align="aligncenter" width="694"] Max Iorio[/caption] Le indagini vanno avanti a stento. Max è un ragazzo tranquillo, conosciuto e ben voluto da tutti, senza un nemico al mondo. L'ampia cerchia di amici viene setacciata, ma non emerge nulla. Passano due anni e un nuovo magistrato inizia a sospettare di ragazzo, fratello di un'amica di Max, uno che

Il 19 marzo tutte le Chiese cristiane celebrano San Giuseppe, "l'uomo giusto" sposo di Maria e padre putativo di Gesù. Ma c'è bisogno di dirlo? La notte che porta a San Jusèf, è quella della Fugaràza, se sei di Rimini, Fugaràcia un po' più in giù, Fugaròina e Fugharèna man mano che si va in su. Comunque vengano chiamati, i falò illuminano la notte del 18 marzo in tutta la Romagna. E non solo. La fogheraccia affonda le sue radici nelle epoche più remote: coincide infatti con l’equinozio di primavera, e almeno fin dal neolitico accendere un fuoco era un rito che doveva propiziare il risveglio della natura. Con un atto di “magia simpatica”, il fuoco degli uomini voleva aiutare quello del sole a rinvigorirsi dopo la sua “morte” invernale. Riti di questo genere erano ( e sono) diffusi in tutta Europa, anche se la data nei paesi più settentrionali era più avanzata: come nel caso della festa celtica Beltaine e i suoi falò del 1 maggio, cioè a metà fra equinozio e solstizio. Una festa di capodanno, perchè erano moltissimi i calendari che iniziano a contare i mesi dalla primavera. E lo sono ancora: per esempio il Comune di Firenze continua a celebrare con

Il 18 marzo del 1937 viene traslata a Rimini la salma di Giovanni Venerucci, morto in Calabria assieme ai Fratelli Bandiera nel 1844. Giovanni Venerucci, nato a Rimini nel 1811, era un operaio nell’officina di Nicola Donati con la qualifica di carrozziere. Già nel 1831 aveva marciato nella Compagnia del Marchese Buonadrata, per congiungersi con la cosiddetta “Vanguardia Nazionale". L'8 febbraio, sotto la guida del colonnello faentino Giuseppe Sercognani (1780-1844), ex ufficiale napoleonico, la Vanguardia dell'Armata Nazionale delle Province Unite Italiane ribellatesi al Papa parte da Pesaro per marciare su Roma. [caption id="attachment_311692" align="aligncenter" width="450"] Giuseppe Sercognani[/caption] E' formata in un primo tempo da soldati e ufficiali papalini di Pesaro e Fano e poi ingrossata da molti volontari dalle Romagne e dalle Marche. Oltre ai riminesi di Bonadrata ci sono i reparti di Bertini da Forlì e di Montanari da Ravenna. Il 12 febbraio la colonna prende la fortezza di San Leo alla prima intimazione di resa, liberando ventotto prigionieri politici, e pone l'assedio ad Ancona, trovando scarsa resistenza nelle truppe pontificie, che in parte disertano. Dopo la conquista del capoluogo marchigiano il 17 febbraio, l'avanzata prosegue indisturbata lungo la via Flaminia fino a uno scontro vittorioso con i papalini presso Magliano Sabino, Rieti però resiste e

Nella notte del 17 marzo 1875 Rimini è colpita dal terremoto. Ecco come Oreste Delucca lo ha rievocato in un due articoli su Chiamamicitta.it. https://www.chiamamicitta.it/altro-terremoto-altro-patrono/ https://www.chiamamicitta.it/la-torre-dellorologio-non-ce-piu/  

Antonio Guerra, detto Tonino, nasce a Santarcangelo di Romagna il 16 marzo 1920. «Mamma e papà - ricorderà poi - erano quasi analfabeti. Facevano gli ortolani e tutte le mattine alle quattro partivano da Santarcangelo, prima a cavallo e poi su un vecchio camioncino, per vendere frutta e verdura. D’estate, mi portavano con loro, per farmi respirare l’aria salubre della valle. All’epoca la paura-madre di ogni famiglia era la tubercolosi e l’aria buona veniva considerata un’ottima cura preventiva». Diplomato maestro elementare, la sua prima passione è la pittura: dipinge ad acquerello ed a inchiostro. Nel 1944, durante la seconda guerra mondiale, viene deportato in Germania e rinchiuso in un campo d'internamento a Troisdorf. [caption id="attachment_30894" align="aligncenter" width="696"] Tonino Guerra deportato in Germania[/caption] «Mi ritrovai con alcuni romagnoli che ogni sera mi chiedevano di recitare qualcosa nel nostro dialetto. Allora scrissi per loro tutta una serie di poesie in romagnolo». Siccome conosce a memoria i Sonetti romagnoli di Olindo Guerrini, li recita ai compagni di prigionia per distrarli dall'angoscia e dalla nostalgia di casa. Poi inizia a inventare nuove poesie, che un amico copia per lui a mano. Dopo la Liberazione, si laurea in Pedagogia all'Università di Urbino  con una tesi orale sulla poesia dialettale. Conservate le poesie composte nel campo di prigionia,

A Rimini, il 15 marzo 1855 un pescatore del Borgo San Giuliano si sente male. Muore dopo tre giorni. I medici non hanno dubbi: è arrivato il "morbo asiatico", cioè il colera. L'epidemia sta infatti già aggredendo l'Italia dopo essere giunta, si dice, dal porto di Genova. La città di Rimini nel 1855 ha 17.627 abitanti. Se ne ammala quasi uno su dieci: 1.264. Con una mortalità altissima: ben 717 decessi, oltre il 56%. Andò ancora peggio a Ravenna, con più di 1.600 morti. E a Bologna furono 4 mila, quasi 30 mila in Toscana, addirittura oltre 140 mila in tutta Italia. Cifre di cui peraltro oggi si dubita, perché in non tutti gli staterelli dell'ancora disunita Penisola il morbo venne censito adeguatamente. Quella che colpì Rimini nel 1855 fu la peggiore epidemia di colera dell'Ottocento. Ma non l'unica, visto che le pandemie nel mondo furono ben sei durante il corso del secolo. La prima, nel 1817, scoppiò in India ma sia arrestò alle porte dell'Europa, alle foci del Volga. La seconda invece, nel 1828, dopo l'Asia non solo  devastò tutto il vecchio continente, ma sbarcò anche nelle Americhe, dove si esaurì solo dieci anni dopo. Nel 1841 fu la volta della terza, terribile infezione, che si

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