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Il 3 marzo la Chiesa cattolica commemora Santa Cunegonda (975-1024) che fu imperatrice del Sacro Romano Impero dal 1014 alla morte. Kunigunde von Luxemburg fu la piissima moglie di Enrico II, l'ultimo degli imperatori della casa di Sassonia e Santo a sua volta. Non ebbero figli, forse per sterilità, forse per voto di castità. Quando restò vedova, Cunegonda tenne le redini dell'impero fino all'elezione del successore, Corrado II di Franconia detto il Salico, per poi ritirarsi in monastero. E' la patrona di Bamberga nel nord della Baviera, dove la Santa coppia imperiale è sepolta, del Lussemburgo, della Lituania e della Polonia. [caption id="attachment_137095" align="aligncenter" width="780"] La Santa coppia imperiale di Enrico e Cunegonda in una raffigurazione del 1480[/caption] Per il suono aspro e solenne, il nome Cunegonda non ebbe una gran fortuna in Italia, tranne che in una parte del Veneto, in Emilia e in Romagna. Fatto sta che Gianni Quondamatteo reca ben chiara nel suo Luneri rumagnol l'intitolazione di Senta Cunegonda al giorno del tre ad Merz. Ma lo stesso autore riminese (in "Tremila modi di dire dialettali in Romagna", Galeati 1974) ci ricorda dell'altro: questo è l'ultimo dei de dla Canucera: «La Canucèra  non può essere altri che la Parca, quella dei

Francesco Alberi nacque a Rimini il 3 marzo 1765. Inizialmente apprendista con Giuseppe Soleri, nel 1784 grazie ad una borsa di studio si trasferì a Roma, dove fu allievo di Domenico Corvi all'Accademia di San Luca, subendo l'influenza del classicismo raffaellesco. In seguito fece sua la maniera di Jacques-Louis David, il "pittore ufficiale" prima della Repubblica francese, poi di Napoleone. Recatosi a Londra per perfezionarsi, vi rimase fino al 1790, anno in cui fece ritorno a Rimini. Nel 1802 prese parte al concorso napoleonico del Comune di Milano. Nel 1806 affrescò l'arcivescovado a Padova, realizzò poi una pala d'altare nella chiesa di Santa Maria a Forlì. A Rimini decorò le dimore nobiliari dei Battaglini, Garampi, Spina e Ganganelli. Si dedicò principalmente alla pittura storico-classica, al ritratto, alla decorazione e all'affresco. I reali d'Olanda acquistarono una sua "Sacra Famiglia". Nel 1799 insegnò disegno a Rimini.  Dal 1804 si trasferì a Bologna, ottenendo la cattedra di pittura figurativa nell'Accademia fino 1806 e dal 1810 ininterrottamente fino alla morte. Divenuto membro onorario dell'Accademia di San Luca, nel 1821 le fece dono del dipinto "Titano fulminato da Giove" (Roma, Accademia di San Luca). Morì a Bologna il 24 gennaio 1836.  Tra le sue opere sono ricordate: "Santi Giacomo, Francesco e Lucia" (Forlì, chiesa parrocchiale di San

2 marzo 1273: in una pergamena dell'Archivio Arcivescovile di Ravenna si cita un "fundus Catholice seu Publici". È una delle prime attestazioni che segnalano la nascita di Cattolica; ma soprattutto, secondo Antonio Carile ("Katholikai 'Cattolica/La Catolga - Un arsenale dell'Esarcato", con M. L. De Nicolò, Milano 1988, citato in "Archeologia e storia di un territorio di confine" a cura di Cristina Ravara Montebelli ) quel Publici chiarisce "il legame con terre origine assegnate ad alti gradi militari del 'numero' di Rimini e collegate al castrum Conke". Ai profani non apparirà, ma la pergamena in questione è importante perché spiega, assieme ad altri indizi, come mai Cattolica si chiami così. Non perché, secondo la leggenda riportata dal Clementini nel narrare del Concilio di Rimini del 359, vi si sarebbero rifugiati i cristiani "cattolici" per salvarsi dalla persecuzione degli stessi Ariani che avevano condotto al martirio il vescovo di Rimini, San Gaudenzo. I terreni di quel fundus erano "cattolici ossia pubblici" perché in origine servivano pagare gli stipendi degli ufficiali "del numero di Rimini", ovvero del distaccamento militare (un numerus teoricamente era di 500 soldati, ma poteva andare dai 200 ai 400) che aveva il suo comando nella Corte dei Duchi di Rimini. E si trovavano in quel plano Chatolice

All'alba del primo giorno di marzo si colloca una delle tradizioni più curiose della Romagna, espressa in ciò che appare più una formula magica che un proverbio: "Sol ad merz, cosmi e cul e no elt", sole di marzo, cuocimi il culo e non altro.  La spiegazione del riminese Gianni Quandamatteo: "Era antica usanza di esporsi al sole di marzo col sedere nudo per preservarsi - come comune credenza - dalle malattie". Un po' diversa l'interpretazione del ravennate Umberto Foschi: "Le ragazze esponevano il deretano nudo al sole, stando sul tetto o ad una finestra non esposta a sguardi indiscreti, credendo così di non cuocersi poi la faccia al sole durante i lavori campestri. Allora la tintarella non era di moda!". Se non che l'usanza, almeno a Cesena, non doveva riguardare solo le ragazze, stando a quanto riporta Giuseppe Gaspare Bagli: "Marz marzazz, cusum al cul e brisa al mustazz", marzo marzaccio, bruciami il culo ma non i mustacchi. [caption id="attachment_455745" align="aligncenter" width="419"] "Proverbi fiamminghi", part. (Pieter Bruegel il Vecchio,1559. Gemäldegalerie, Berlino)[/caption] Conferme e varianti del rito nel Riminese sono state raccolte da Maria Cristina Muccioli. In “Parché l’àn nòv u t’azuva, e’ prem dl’àn màgna l’uva”, (Agenda storica 1999, a cura di Maurizio Matteini Palmerini. Pietroneno Capitani Editore Rimini)

Il 1 marzo 1507 papa Giulio II, "reduce dall'impresa di Bologna" e sulla via di Roma, pernotta a Santarcangelo. Non può andare a Rimini perché la città dal 1504 appartiene a Venezia. E di ciò è molto scontento. [caption id="attachment_28761" align="alignnone" width="1299"] La rocca di Santarcangelo[/caption] Le cronache di Papa Della Rovere assomigliano più a quelle di un condottiero piuttosto che di un pontefice. "L'impresa di Bologna" è stata la riconquista della città manu militari, strappandola alla signora dei Bentivoglio per riportarla all'obbedienza di Roma. Il Papa vi ha preso parte di persona, indossando la corazza. Ma ora, dopo che già Cesare Borgia, sotto il suo predecessore Papa Alessandro VI, aveva spazzato via tutti i signorotti di Romagna, Marche e Umbria, Malatesta compresi, c'è ancora del lavoro da fare. Venezia si è infatti impadronita di Faenza, Ravenna, Cervia e Rimini. Un boccone che per la Serenissima deve diventare indigesto, medita il collerico Papa. Fin qui era andato tutto bene. Suo nipote Francesco Maria Della Rovere, figlio di una Montefeltro, nel 1504 era stato designato da Guidobaldo, ultimo della dinastia, a succedergli come Duca d'Urbino. Poi il controllo centrale della Santa Sede viene imposto anche dove era stato solo teorico con una brillante campagna militare. Nel 1506 le forze armate pontificie sono riuscite ad entrare

"Gli ultimi tre giorni di febbraio e i primi tre giorni di marzo (o, più recentemente, solo l'ultimo giorno di febbraio o il primo di marzo) sul far della sera, i contadini facevano (e in qualche luogo fanno ancora) «lume a marzo», accendendo fuochi nei campi": così riportano Eraldo Baldini e Giuseppe Bellosi ("Calendario e tradizioni in Romagna" il Ponte Vecchio, Cesena 1989-2016). E il riminese Gianni Quondamatteo ("E' luneri rumagnolo", Galeati, Imola 1980) precisa: "Subito dopo il tramonto si accendeva in ogni campo un gran falò di gramigne e sterpi, e intorno a questa fugaréna, certo di remota origine, i fanciulli facevano il girotondo, ripetnedo un'antica invocazione". Eccola: "Lȏna, lȏna a mêrz/ che una spiga feza un bêrch/ un bêrch una barchetta/ e una ghemba d'uva seca". Di questa formula esistono molte versioni in tutta la Romagna. Sempre nel riminese, Nanni nel 1924 raccolse questa: "Lom a mêrz, lom a mêrz/ una spiga faza un bêrch/ un bêrch, un barcarol/ una spiga un quartarol/ un bêrch, una barchetta/ tri quatrein una malètta".   [caption id="attachment_251278" align="aligncenter" width="635"] Uno staio da grano (al minòt) esposto nel Museo della Civiltà Contadina "G. Riccardi" di Zibello (PR)[/caption] Evidente l'intento propiziatorio rivolto alla resa del grano. La

Il 28 febbraio 1956 viene costituito il nuovo Comune di Bellaria - Igea Marina.  Distaccatosi dal Comune di Rimini, il nuovo ente copre una superficie di 18,17 kmq ed ha 8.78 abitanti. Il decreto del Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi era stato firmato il 17 gennaio 1956. La prima richiesta di "secessione" da Rimini risaliva al 1932. Al risultato conseguito oltre un quarto di secolo dopo ha contribuito un comitato sorto nel dopoguerra e coordinato dal presidente Orfeo Bartolini; ne fanno parte 33 bellariesi, 17 igeani e 9 bordonchiesi. Alla cerimonia del 28 febbraio prende parte il senatore Braschi, ministro della Marina mercantile. Lo stella comunale è stato ideato da Guido Matassoni: in campo bianco e azzurro, spiccano la Torre saracena, il sole e un gabbiano sul mare; il motto recita "Viresque aquirit eundo" (attribuito a Virgilio: "accresce le forze camminando"). Le prime elezioni del nuovo Comune si tengono il 27 maggio del 1956. Il primo sindaco è Nino Vasini, del Partito Comunista Italiano, che poi sarebbe rimasto per decenni alla guida della città alternandosi con Odo Fantini, anche lui del Pci. (M. Foschi, "Storia di Bellaria")

Luigi Tonini (1807 – 1874), bibliotecario della Gambalunga e archeologo, è stato senza dubbio il più valente storico di Rimini e con pieno merito gli sno intitolati i Musei comunali della città. Nel catalogare e valutare l’immensa mole delle fonti archivistiche, cui dobbiamo la ricostruzione della storia municipale, il suo essere anche un fervente cattolico gli fece però prendere non pochi granchi. E’ il caso della lotta medievale fra papi e imperatori, dove tutte le espressioni del Tonini sono caldamente a favore dei primi. E’ pur vero che in pieno Ottocento gli imperatori “tedeschi” non godevano di gran stima presso i dotti italiani, sebbene il Machiavelli da tre secoli avesse messo in chiaro che se un’Italia non esisteva unita allo stesso modo di Francia, Inghilterra, Spagna e Portogallo, lo si doveva al persistere di un stato dei Papi.   E così per l’anno 1226, dopo che Federico II di Svevia non era riuscito ad aver ragione della guelfa Faenza, Tonini si immagina che “abbassato così l’orgoglio di Federico Imperatore, è a credere che la parte degli ecclesiastici qui pure si rialzasse: a tra per questo, tra per il bisogno del pubblico esercizio del culto, i nostri cercassero di mettere la reggenza della città io mano a persona

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