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Federico era figlio primogenito del conte Guido da Montefeltro, leader dei ghibellini e nemico implacabile di Malatesta da Verucchio, il "Mastin vecchio" di Dante. Federico continuò nel solco del padre, come del resto fecero i figli del "Mastino" sulla sponda opposta. Guelfi contro Ghibellini; ma potevano esservi le debite eccezioni, come quando, nel 1305 Federico era passato al servizio del legato pontificio Napoleone Orsini pur di combattere contro Pandolfo Malatesta. Insomma le bandiere potevano anche invertirsi, ma fra Malatesta e Montefeltro non poteva esserci pace. Quando Federico tornò a Urbino nel 1322 dopo aver guerreggiato fra Marche, Toscana e Umbria, trovò un clima che forse non si aspettava. I Malatesta avevano sobillato la voglia di rivincita dei Guelfi urbinati e il popolo stava con loro. In città scoppiò una violenta rivolta, subito sostenuta dai rinforzi provenienti da Rimini. I Ghibellini furono assediati nella rocca, senza via di scampo né speranza di soccorsi. A Federico non restò che arrendersi; si presentò al popolo assieme al figlio Guido e chiese misericordia, con il capestro al collo. I cittadini li fecero entrambi letteralmente a pezzi. Ma un altro figlio di Federico era scampato al massacro: Sighinolfo dettto Nolfo, fuggito a San Marino insieme al cugino in secondo grado Speranza. Nel luglio del 1324, Nolfo recupera la città

Il 4 luglio 1849 cade la Repubblica Romana. Chi non vuole arrendersi ai Francesi arrivati per ripristinare il trono di Papa Pio IX, segue Giuseppe Garibaldi nell'epica marcia attraverso gli Appennini; sono diretti a Venezia, dove la risorta Repubblica di San Marco resiste ancora agli Austriaci. [caption id="attachment_50483" align="alignnone" width="737"] La fortezza di Marghera sotto il bombardamento austriaco[/caption] Anche Rimini è in subbuglio, a Roma ci erano andati in parecchi. E non tutti erano ritornati, come ricorda Carlo Tonini: «Non tardò quindi a venire l’annunzio della caduta di Roma in mano ai francesi, e della capitolazione d’Ancona cogli Austriaci; onorevoli ambendue pei difensori: e quindi ben presto si videro ritornare (da Roma ndr) i deputali Ferrari e Serpieri. Dei riminesi, che si trovarono in quei famosi combattenti, incontrarono la morte Remigio Buffoni, Gio: Battista Bonini, Camillo Macina, Daniele Raffaelli, Ercole Ugolini». Garibaldi sguscia fra gli Austriaci zigzagando fra i monti di Lazio, Umbria, Toscana e Marche. I reduci di Roma erano partiti in 4.700, poi Garibaldi li aveva divisi in colonne separate anche per confondere gli inseguitori. L'afflusso di altri volontari non colma però le numerose diserzioni, ormai le camicie rosse non solo più di 1.500. E c'è anche Anita, incinta. La popolazione li sostiene costantemente. Ma la morsa degli Austriaci si stringe: in

Cesare Clementini, nel suo Racconto Istorico della Città di Rimino (1617), inframezza spesso i fatti del passato con quelli di cui è stato testimone. E così, nel narrare di un terrificante 29 luglio del 1292, quando «fu così eccessivo caldo, ch'il vento il quale spirò, piuttosto fuoco, che aura calda rassembrava», riconosce subito il colpevole di tanta arsura: il garbino. E quindi non può fare a meno di annotare quanto aveva dovuto patire lui, assieme a tutti gli altri Riminesi, pochi anni prima, nel luglio del 1611. Clementini ricorda bene anche la data e perfino l'ora in cui giunse quell'ondata di calore: era il 6 luglio, di mercoledì, «alle quindici hore». La porta il «vento Garbino, in Romagna chiamato, tanto eccessivamente caldo, che più tosto rassomigliava a pura vampa di fuoco, che vento, e non permetteva di camminare, o pratticare strade della Città di Rimino, non che la campagna aperta; posciacchè levava il fiato alle persone». Come scampavano all'afa quando aria condizionata e refrigeratori non comparivano nemmeno nelle più sfrenate fantasie? «Era necessario per vivere, rinchiudersi nelle sotterranee stanze, con fenestre, e porte, molto ben ferrate». Del resto, dove andare? «Stavano le botteghe tutte chiuse, il camminar discalzo era impossibile, perché la terra ardeva, e

Alle 5.40 del 25 luglio 1922 muore Olga Bondi, anni ventuno. Era rimasta ferita il giorno prima da colpi di pistola sparati da un gruppo di fascisti. Olga Bondi (in alcuni documenti risulta "Biondi") era la compagna di Nello Rossi, un Ardito del Popolo da poco rimesso in libertà dopo un arresto. «Così fu disposto di far precedere all’applicazione penale, una formale diffida a tutte le dette sezioni [degli Arditi del Popolo], per l’immediato loro scioglimento», scrive il commissario di Pubblica Sicurezza di Rimini. Nonostante la diffida ricevuta, gli Arditi del Popolo riminesi – oltre un centinaio – proseguono la loro attività. Secondo i Carabinieri del Re, il Gruppo Anarchico Pietro Gori – ex Giovanile – andava considerato una vera e propria associazione per delinquere. La sera del 29 Settembre 1921 vari Arditi del Popolo dopo una riunione percorrono la città cantando l’Internazionale con il ritornello «abbasso i tre / regie guardie / carabinieri e re». Interviene la forza pubblica ed effettua 11 arresti: fra gli altri Nello Rossi, nato a Borghi nell’aprile 1898, falegname. Nell’interrogatorio respinge tutte le imputazioni, ma il 30 novembre è condannato a 3 mesi di carcere. La pena restante risulta condonata e gli imputati posti in libertà. Scrive Rossi dalla prigionia: «Carissimi Compagni

Il 25 luglio 1500 il pittore Lattanzio da Rimini firma a Venezia il contratto per quella sarà forse il suo capolavoro: un polittico destinato alla chiesa parrocchiale (oggi il duomo) di Piazza Brembana nella Bergamasca. L'opera, che è ancora al suo posto, sarà firmata "Latantio ariminens[is] 1503". Di Lattanzio non si conosce la data di nascita, ma si sa che era nipote di Bittino da Faenza, colui che dipinse le storie di San Giuliano per la chiesa del Borgo. Ed era figlio di un altro pittore, Ambrogio. Il primo documento che cita Lattanzio è del marzo 1492 e lo dice aiuto di Giovanni Bellini nel ciclo di teleri per la sala del Maggior consiglio in Palazzo ducale a Venezia. Nonostante questi dipinti siano andati perduti nell'incendio del 20 dicembre 1577, vennero a lungo ricordati come il vertice dell'opera di un artista divenuto un mito già in vita. [caption id="attachment_217228" align="aligncenter" width="988"] "Pietà" di Giovanni Bellini (1470 ca. Rimini, Museo della Città)[/caption] Il "Giambellino" (Zuane Belin in lingua veneta) in quel momento è un'autentica superstar. La sua bottega è fra le più reputate d'Italia quando il Bel Paese è il non plus ultra in Europa (e non solo: anche il Sultano si fa ritrarre da

Dal 535 al 553 l'Italia è devastata dalla Guerra Gotica. La maggior parte delle distruzioni e delle sofferenze che di solito sono genericamente attribuite alle "invasioni barbariche" avvennero invece durante questo interminabile conflitto. A rigore, gli invasori (o "liberatori": come sempre in questi casi, dipende dal punto di vista) non erano i "barbari" Ostrogoti, ma i "Romani", cioè i "bizantini" di Giustiniano, incoronato nel 527 a Costantinopoli e deciso a ripristinare l'unità dell'impero. Aveva già sistemato le cose con i Persiani e ripreso l'Africa ai Vandali; ora toccava all'Italia. Qui si era però instaurato il regno del goto Teodorico, in difficile equilibrio fra sostanziale autonomia e formale obbedienza all'impero. E soprattutto fra il dominio dei nuovi venuti e la popolazione "romana". [caption id="attachment_49957" align="aligncenter" width="670"] Moneta di Teodato[/caption] Alla morte di Teodorico (526) l'equilibrio si ruppe. Il trono fu ereditato dal nipote Atalarico sotto la reggenza della madre Amalasunta. Perito anche Atalarico in tenera età, Amalasunta fu costretta a condividere il trono con il cugino Teodato. Questi, con qualche ragione, temeva che Amalasunta avrebbe ceduto l'Italia a Giustiniano, col quale intratteneva ottimi rapporti. Nel 535 Teodato, messosi d'accordo con la frangia anti-romana dei Goti, organizzò un colpo di Stato con cui rovesciò ed esiliò la cugina sull'isola Martana del Lago

Una delle figure femminili più grandi del medio evo è quella di Marzia Ordelaffi, più conosciuta come Cia degli Ubaldini, moglie di Francesco II Ordelaffi il Grande signore di Forlì. Indomita, spietata fino alla ferocia, orgogliosissima del suo lignaggio e delle sue prerogative. [caption id="attachment_49781" align="aligncenter" width="1323"] Lo stemma degli Ordelaffi di Forlì[/caption] Cia era figlia di Vanni Ubaldini da Susinana e di Andrea Pagani, figlia a sua volta del celebre Maghinardo Pagani da Susinana. Gli Ubaldini erano un'antichissima famiglia forse di origine longobarda che possedeva diversi feudi lungo il crinale appenninico del Mugello fra Romagna e Toscana. All'apice della potenza con Federico I Barbarossa, furono sempre fieramente Ghibellini. Secondo la leggenda, fu l'imperatore a concedere il privilegio di inserire una testa di cervo nello stemma di famiglia, poichè uno degli ubaldinidi cui era ospite nel castello della Pila durante una battuta di caccia avrebbe afferrato l'animale per le corna così che Federico potesse trafiggerlo. [caption id="attachment_477870" align="alignleft" width="1146"] Stemma degli Ubaldini[/caption] Ma il personaggio più potente della famiglia fu il cardinale Ottaviano, che invece fu colui che nel 1248 ridusse tutta la Romagna all'obbedienza guelfa; tra il 1249 e il 1250 fu anche amministratore apostolico della diocesi di Rimini. Fu lui a ottenere la

Solo nel 1673, dopo decenni di disperate richieste da parte della popolazionee dei suoi rappresentanti locali, lo Stato della Chiesa si decise a costruire sei torri di avvistamento da Cattolica a Bellaria. Sono le  torri che dovevano servire a difendersi dai pirati (ma anche da molto altro) e che verranno chiamate “saracene”. In realtà in quegli anni il pericolo più costante non era venuto dai corsari musulmani, la cui base più prossima era a Dulcigno (in albanese Ulqin, in serbo-croato Ulcinj, oggi in Montenegro), bensì dai ben più vicini Uscocchi, cattolicissimi e con il covo a Segna (Senj), presso Fiume. [caption id="attachment_49771" align="alignnone" width="1310"] La fortezza di Segna, covo dei corsari Uscocchi[/caption] Gli Uscocchi erano croati, serbi e bosniaci fuggiti dal dominio ottomano, ma anche sbandati di ogni provenienza e risma, cui l’Impero asburgico aveva concesso protezione ai primi del ‘500: in teoria per fronteggiare i Turchi, in pratica per molestare Venezia e tutta la costa adriatica occidentale, Stato della Chiesa compreso. Abbordaggi di navigli, ma anche razzie sulla terraferma con rapimenti di gente da ridurre in schiavitù o per cui chiedere un riscatto, fra ‘500 e ‘600 erano tristi consuetudini anche sulle coste romagnole. Venezia dovette combattere contro gli Austriaci ben due “guerre degli Uscocchi”, ottenendo alla fine che

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