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Ricco, colto, bellissimo, amante del buon vivere, trovò anche modo di creare le targhe biancazzurre della Repubblica di San Marino

Alberto Miliani era, allorché si avvicinò casualmente, al mondo del pugilato, un bellissimo ragazzo di buona famiglia. Il ramo paterno prendeva origini da quel Pietro Miliani che, nel 1782, aveva fondato l’omonima cartiera in quel di Fabriano. Gente ricca che per generazioni si lasciò trasportare da un furioso turbinio imprenditoriale, stando ben avvinghiata alla solidezza realistica; gente che stimava essere una virtù la propria perenne insoddisfazione unita alla volontà di nuovi acquisti. Certo, i Miliani crearono un impero e lo fecero, c’è da scommetterci, con l’egoismo, l’arroganza, l’avidità che furono caratteristiche comuni  di tutti i pescicani, di tutti i boss, di tutti i capitani d’industria, nel momento più selvaggio del capitalismo. Il nonno di Alberto, Giovanni, staccatosi dal ramo fabrianese, divenne un ricco possidente delle Balze di Verghereto. Alto ed imponente, di una maestosità monumentale, viveva in un vetusto, squadrato palazzo di pietra. Da lì badava alla conduzione dei suoi undici poderi. Fondi che erano dislocati in varie località della vallata tra Verghereto, Capanne, Moggiano, Corezzo, Pieve Santo Stefano… Si diceva, addirittura, che le fiere non avessero inizio se non dopo che tutti gli armenti del signor Giovanni si erano ammassati sul campo. La sua maestosità s’accordava ad una vitalità esuberante,

Il dottor Tonino Tomasetti era riconosciuto ed indiscusso capo branco dei ciclisti che ogni domenica intasano la Marecchiese

Chi leggerà questo articolo non potrà fare a meno di ricordarsi di quando, in viaggio, nelle mattine domenicali, si è trovato nell'impossibilità di sorpassare un gruppone di ciclisti che caoticamente, ravvolto in una nuvola multicolore, tra lampi di cerchi, fruscio di tubolari, procedeva all'impazzata lungo la Marecchiese, attraverso le balze fiorite, la rigida pezzatura dei campi, e l'apparire e il dissolversi di quei paesi che da sempre scandiscono la storia di quella magnetica, bellissima arteria che da Rimini penetra nel cuore del Montefeltro. Ad un automobilista che non fosse preso dal morbo della velocità e che fosse tollerante e ben disposto verso i "corridori della domenica", sarebbe dato di scorgere, tra quella moltitudine ingobbita e vociante: ghigni feroci, volti stravolti dalla fatica, folli cavalieri che guatano dubbiosi i compagni di ruota, ed avrebbe avuto modo di assistere ad una vera e propria corsa disperata, una impietosa gara ad eliminazione, nella quale ogni partecipante anelava alla distruzione, all'annientamento di tutti gli altri. In questa competizione non ufficiale, in cui non esiste numero, ogni mezzo è lecito pur di arrivare con i primi: per lo sconfitto, per chi si attarda, per colui che sfortunatamente incorre in un incidente non esiste pietà. Incuranti

Il corridore di Faenza apparteneva alla generazione dei Bartali, Magni, Kubler e di Fausto Coppi, che riuscì a battere

Qualunque ciclista che si rispetti sa che Mercato Saraceno, località posta a 56 chilometri da Rimini, sulla SS.71 Umbro Casentinese Romagnola, è la porta d’ingresso di un vero calvario per i patiti delle due ruote: il valico del Barbotto. Il Barbotto è una sorta di Moloch che nulla perdona ai deboli ed esige da tutti un tributo di fatica che ne fa (tutt’ora) un terreno particolare in cui si collauda, sempre e comunque, l’eroismo. La strada che conduce al passo, s’inerpica in un gomitolo di curve e rettilinei improvvisi da spezzare i garretti. Sono cinque chilometri d’ascesa con pendenze varianti dal 7 al 20 per cento. Su questa rampa (per altro assai breve) è scritta l’intera epopea del ciclismo romagnolo. L’universo dei ricordi di Vito Ortelli, incommensurabile campione della generazione di Bartali, Coppi, Magni, Kubler (Vito Ortelli è nato a Faenza il 5 luglio 1921. Tra le sue vittorie più importanti un Campionato Italiano su strada nel 1948, due Campionati Italiani di Inseguimento 1945-46, battendo nientemeno che Fausto Coppi), è in perenne moto. Egli, amabile affabulatore, agguagliava con sorprendente precisione i frantumi del tempo ad effimere immagini; scandiva i ricordi, ritagliava le passate stagioni tanto che le situazioni ed i

L'unico autentico in Romagna? Olindo Guerrini alias Lorenzo Stecchetti, Argia Sbolenfi e molto altro

Ritorniamo a parlare di dialetto e di poesia dialettale. Holderlin, aveva detto che il linguaggio era il più pericoloso dei beni che fossero stati dati all'uomo. Si potrebbe aggiungere che, maneggiare codesto "dono" per un "poeta", è mille volte più pericoloso che per gli uomini comuni. Dissipando tutta la triste cortina di estetismi, di romanticismi, di irrazionalismi, che per troppo tempo ha obnubilato la nostra cultura letteraria, ormai ognuno di noi sa che il poeta non è un bambino, non è il fanciullino di cui tanto parlava Pascoli. La poesia non è mai ricreativa. L'attività del poeta non è di per se spassosa, né può essere divertente. La poesia è, per usare le parole di Cesare Brandi: "la naturalità che si decanta in realtà senza esistenza, ed è naturalità che urge, preme, deve essere espressa, fissata per sempre. La realtà a cui aspira non può compendiarsi nella verità logica, ma esige di concretarsi in realtà, presente, astante nella coscienza, e questa realtà non potrà essere allora che intuitiva e non potrà che essere data dall'immagine. Ma l'immagine della poesia è immagine complessa". L'artista, qualunque artista, deve conoscere alla perfezione i mezzi che adopra: per un poeta le parole, per un

Per oltre un ventennio si sfidarono sulle strade e in pista come nel racconto di Conrad e nel film di Ridley Scott

Ritrovo nelle illustrazioni in bianco e nero dell’ormai arcaico Sport Illustrato, i volti quasi imberbi di Franco Magnani e Sergio Fabbri. Chi sono mai costoro?  Franco Magnani di Cesena (classe 1938) e Sergio Fabbri di Rimini (1939), diedero vita per oltre un ventennio (con l’esclusione degli anni compresi tra il 1961 ed il 1965, periodo in cui Magnani corse tra i professionisti) ad un vera e propria contesa sportiva. Codesta rivalità, come nel racconto di Conrad: “Il duello”, che vide gli ufficiali dell’esercito napoleonico D’Hubert e Feraud, protagonisti di una controversia assurda che si protrasse per buona parte della loro esistenza, ha caratterizzato il “destino” di questi due atleti straordinari.  Va detto, ad onor del vero, che le carriere dell’uno e dell’altro non  reggono il confronto, tanto quella di Franco Magnani, surclassa quella di Fabbri, il quale non fece mai il salto di categoria restando perennemente un dilettante ma, facendo la storia del quotidiano, dell’anonimo, di tutto ciò che pare insignificante, dimenticato, sepolto, riscopro, scrivendo di questi due antichi ciclisti, “ferite di gioia” e m’illudo che la giovinezza non sia irrimediabilmente perduta. [caption id="attachment_413759" align="alignleft" width="1500"] Franco Magnani professionista nella Salvarani[/caption] Ricordo le mattine in cui, io quattordicenne, andavo di proposito a cercare le

Calciatore degli albori biancorossi, correva, nuotava, remava, tirava di boxe e di scherma, ma fu anche appassionato scrittore di storia

Se è esistito, a Rimini, un personaggio il cui nome si sia legato indissolubilmente alle vicende sportive e storiche della nostra città, questi, è stato Flavio Lombardini. Era nato il 13 Aprile 1904 a Poggio Berni. Soltanto dopo la morte del padre, avvenuta nel 1908, la madre, con i due figlioletti (Enrico, il primogenito era nato nel 1902), si trasferì a Rimini essendo stata assunta come governante in casa del dott. Frizzati, che era il direttore della Cattedra Ambulante di Agricoltura. Le Cattedre Ambulanti di Agricoltura, furono, per quasi un secolo, le più importanti istituzioni agrarie rivolte, in particolare, ai piccoli coltivatori. Soltanto nel 1935, le Cattedre furono trasformate in Ispettorati Provinciali dell’Agricoltura, cessando di essere emanazione delle iniziative locali e diventando uffici esecutivi del Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste. La vedova, inurbatasi, vinse la sepolcrale cupezza arrecatale da una sorte avversa, gettandosi nel lavoro, dedicandosi totalmente alla cura dei figli i quali, crebbero sani applicandosi prima nello studio e quindi nel lavoro. Le fotografie che ritraggono Flavio Lombardini in età giovanile, ci mostrano un ragazzo magro, magro dai folti capelli corvini. Che fosse sottile, non veniva considerato evento di particolare eccezionalità dai contemporanei. Gli italiani dei primi anni del secolo,

Ho voluto, all’indomani delle ultime elezioni politiche, recarmi alla chiesa di Santa Chiara

A proposito della Madonna di Trevignano che lacrima sangue ogni tre del mese, ho voluto, stando nel nostro “particulare”, limitarmi a scandagliare ciò che di miracoloso è accaduto a Rimini. “Un dipinto di Lorenzo Pasinelli raffigurante la Madonna (ora allo Schloss Liechtenstein di Vaduz) è indirettamente all’origine di tutta una serie di miracolose immagini mariane riminesi”, scrive Pier Giorgio Pasini nel suo interessantissimo “Arte e storia della Chiesa Riminese”. L’immagine di questa languida Vergine venne poi utilizzata da altri artisti. Domenico Bonavera la riprodusse attraverso un’incisione che molto probabilmente servì per la realizzazione di “un mediocre dipinto settecentesco conservato a Rimini in casa Parri, considerato il ritratto della Beata Vergine nell’aspettazione del parto”.  Nel 1730 anche Giovan Battista Costa realizzò un’ulteriore copia.  Il lavoro gli era stato commissionato dalla confraternita di san Girolamo ed allorché nel 1796 il quadro cominciò a dar “segnali miracolosi”, il pittore riminese Giuseppe Soleri Brancaleoni, volle far dono ad una sua sorella monacatasi presso il convento delle Clarisse, di un fedele rifacimento della “meravigliosa” immagine. Il “quadretto” fu, nel 1810, esposto nel Santuario della Madonna della Misericordia, il luogo di culto che tutti i riminesi indicano col nome di Santa Chiara. Incredibile est dictu, le tre immagini riprodotte dall’originale

Entusiasmanti le sue stagioni ad Amburgo, Nizza, Parigi, Ginevra fino a Teheran alla corte dello Scià

La guerra nel 1946 era un ricordo che sbiadiva. Gli italiani avevano ricominciato a sorridere. C'erano ancora, è vero, le tessere annonarie, le AM-lire e sulle sconnesse, malridotte strade, circolavano i camions Dodge, lasciati dalle truppe americane. L'italiano medio era un poveruomo con indosso abiti sdruciti, cappotti rivoltati, con pochi soldi in tasca, con difficoltà a trovare lavoro e alloggio; tuttavia era pieno di speranze e aveva in corpo una irrefrenabile voglia di evasione. C'era una vera e propria richiesta di divertimento quasi a voler esorcizzare le tante paure sofferte e gli infiniti patimenti.  Dilagò, prepotentemente, ovunque, nelle improvvisate balere, nei risorti "circoli", nelle "Case del popolo", un fenomeno sociale: il ballo. Tango, polka, valzer, fox-trot, ma soprattutto boogie- woogie. Era il momento dello swing. Nello stesso tempo, a Rimini, un musicista diciannovenne, Luciano Berlini, ritornato nella sua città dopo l'inevitabile periodo di sfollamento, fu casuale spettatore di una improvvisata proiezione cinematografica, effettuata dalle truppe alleate al Borgo San Giuliano.  Era un film musicale. Alla tromba si esibiva un suonatore di Albany: Harry James. Per il giovane Luciano fu una folgorazione. Coinvolgendo un amico, un tale Olten che viveva in Svizzera, Luciano riuscì a procurarsi un prezioso, ed in Italia introvabile volume:

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