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Chi ha fatto le ore piccole per vedere tutta la finale di Sanremo 2023? Qualcuno che non ha visto le quattro serate precedenti e non sa che Marco Mengoni aveva già la vittoria in tasca dalla prima serata. Mentre scrivo queste righe l’ultima tranche del Festival sembra solo un piano inclinato che porterà inevitabilmente il leoncino d’oro rampante simbolo della città ligure nelle mani del cantante di Due vite, non prima delle due e mezza di notte. Si vincono anche soldi? Pare di no, il guadagno è tutto in visibilità, impennata di vendite e di passaggi radiofonici, moltiplicazione dei concerti e prestigioso passaggio a Eurovision Song Contest – e, naturalmente, il vincitore entra (o dovrebbe entrare) nella storia del Festival. Tutte cose di cui Mengoni non ha bisogno, avendole già ottenute tutte nel 2013, Eurovision compreso – dove arrivò solo settimo, a causa dell’inveterata allergia paneuropea alle canzoni intimiste e agli interpreti dal look minimalista. (È l’argomento più forte in mano agli anti-mengonisti, e cioè che se vince lui, l’Eurovision ce lo scordiamo anche quest’anno, mentre con Rosa Chemical o con Madame, o al limite con i Cugini di Campagna avremmo più speranze.) Comunque la si pensi su Mengoni (e io sono

«Non protesto mai quando mi vengono attribuite radici ebraiche, anzi, sarei orgoglioso di averle». Quanto mi sarebbe piaciuto che Elly Schlein, la candidata più «nuova» alle primarie del Pd, avesse risposto come Charlie Chaplin alle allusioni maligne alla sua ascendenza paterna, di cui ha parlato in un’intervista a Tpi. Allusioni che squalificano solo chi le fa, oltretutto a pochi giorni dal Giorno della Memoria (che a quanto pare, come sospettava Liliana Segre, serve più a riempire i giornali e i palinsesti televisivi che a svuotare la testa della gente da pregiudizi e diffidenze), tanto più se, come gli odiatori di Schlein, tirano in ballo tratti somatici – il naso, sai che fantasia. Cosa vuoi dire a gente che nel 2023 parla ancora di «naso ebraico» se non di vergognarsi oppure di farsi curare da uno bravo, meglio ancora tutt’e due le cose? E invece Schlein, ahimé, ha risposto scendendo sullo stesso terreno degli imbecilli antisemiti: non solo ha smentito di essere ebrea, essendo nata da padre di origini israelite ma da madre gentile, «e la trasmissione avviene in linea matrilineare», ma ha affermato, spero scherzando, che il suo naso è «tipicamente etrusco». Ma perché? C’era bisogno di puntualizzare pubblicamente di non appartenere

Lia Celi: "A forza di vivere con noi i «pet» hanno finito per assomigliarci, ci fidiamo?"

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Coltellate a Villa Verucchio per il vicino blasfemo

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Fra le tante cose per cui la gente della mia età dovrebbe ringraziare il Signore (qualunque nome gli dia) o la buona sorte, c’è anche quella di non essere degli adolescenti. Non è la storia della volpe e l’uva, davvero: essere giovani nel 2022 è una faticaccia. La società moderna, dove grazie al progresso si possono conservare salute, vigore fisico e perfino sex appeal ben oltre l’età della pensione, ha tolto alla gioventù l’unico vantaggio che la rendeva così preferibile all’età adulta: la leggerezza. Oggi sulle spalle dei ragazzi è appeso un fardello di preoccupazioni, ansie, timori e paturnie di ogni genere. Dentro quel fardello ci sono le paure che gli instilliamo noi adulti, che sono quelle solite (gli incidenti, le droghe, le cattive compagnie, la disoccupazione, eccetera), quelle che apprendono dal mondo dell’informazione (il cambiamento climatico in primis) e quelle, pesantissime, trasmesse dal mondo virtuale in cui passano gran parte del loro tempo: la paura di non essere abbastanza, di non stare facendo le scelte giuste, di essere esclusi da qualcosa di importante, di essere giudicati. Che gli adolescenti ormai siano fasci di nervi lo dimostra anche il recente studio condotto da una Commissione regionale, secondo cui Emilia Romagna otto ragazzi

Se Azzurrina venisse un po' al mare potrebbe far concorrenza a Mercoledì Addams

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L'inziativa del senatore Andrea De Priamo di Fratelli d'Italia

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Vi è piaciuto il panettone che ha chiuso il pranzo di ieri? Considerato che «mangiare il panettone» nel linguaggio popolare significa arrivare tutti interi a Natale, non bisognerebbe essere tanto schizzinosi sulla qualità del panettone stesso, l’importante è riuscire a mangiarlo. Anche perché quando si parla di qualità dei panettoni e dei dolci natalizi in genere si entra in un banco di nebbia – burrosa e dolcissima – in cui è veramente difficile raccapezzarsi. Sulla mia tavola natalizia è stato scartocciato un blasonatissimo panettone extralarge, sfornato da una prestigiosa pasticceria (non riminese) e arrivato con tanto di pedigree pergamenato che attestava la qualità delle uova, la provenienza del burro e l’origine di ogni singolo candito, per non parlare del nobilissimo lievito madre, il Gotha dei lattobacilli e dei saccaromiceti. I commensali hanno addentato la propria fetta a occhi socchiusi, in religioso silenzio, preparandosi a essere trasportati in un’altra dimensione gustativa che gli avrebbe fatto dimenticare le vili pagnotte che fino a quel momento avevano usurpato il glorioso nome di panettone. Dopodiché il vero sforzo è stato mascherare con mugolii entusiastici la delusione di scoprire che non c’era tutta quella differenza col panettonazzo da cinque euro del supermercato. Ci voleva il bambino dei

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