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Un piccolo sussulto l’ho avuto anche io, passando davanti al tabellone dei necrologi in via Guerrazzi: in mezzo ai manifestini dedicati a riminesi noti solo ai loro cari e agli amici, ne campeggiava uno sintonizzato sulla più cupa attualità internazionale. La defunta era Darya Dugina, la giovane filosofa figlia dell’ideologo nazionalista russo Aleksandr Dugin, uccisa a Mosca in un attentato dai tanti lati ancora misteriosi. Ma «le amiche e amici della Russia» che hanno commissionato il necrologio e organizzato una messa in ricordo della Dugina non hanno dubbi: la matrice dell’assassinio è l’«odio anti-russo». Viene così così implicitamente avallata la versione ufficiale confezionata in ventiquattr’ore dagli inquirenti russi, che indicano come responsabile dell’omicidio Natalya Vovk, una militare ucraina già fuggita in Estonia. Basterebbe un’occhiata ai giornali per sapere che questa tesi non è del tutto convincente. Alle autorità moscovite sono bastate poche ore per identificare e smascherare una soldata nemica che avrebbero potuto neutralizzare molto prima, visto che a quanto pare circolava in territorio russo già da venti giorni e comunque è riuscita a espatriare indisturbata. Qualcuno poi ha anche notato che il viso della morta, esposta al funerale in una bara aperta, era stranamente intatto e non sembrava certo quello di

Forse non tutti sanno che nelle antiche grammatiche la R era soprannominata «littera canina», la lettera del cane. Facile capire il motivo: il suo suono ricorda un ringhio. Come segno grafico nell’alfabeto latino, la lettera trovò la sua forma definitiva alla fine del III secolo a. C., più o meno negli stessi anni in cui i Romani fondavano la colonia di Ariminum. Non sono le radici storico-archeologiche il motivo per cui la «littera canina» fa vibrare dopo più di duemila anni i nervi dei cittadini del centro storico, corrispondente alla città romana. R è la lettera gialla che indica i parcheggi riservati ai residenti, privilegio ambito e diventato negli anni sempre più raro causa abbellimenti urbani. Dal reperimento di una piazzola con la R al momento giusto possono dipendere la serenità della vita domestica, la puntualità dei pasti, l’armonia di una coppia: «ci ho messo un’ora per trovare parcheggio» è la scusa più perfetta e credibile per ritagliarsi una parentesi serale per un appuntamento clandestino, reale o virtuale. Non ho dati precisi che colleghino la diminuzione dei parcheggi per residenti all’aumento di divorzi e separazioni, ma in generale posso garantirvi che non facilitano la vita domestica. Meno ci sono piazzole con la

Il vero uomo non mangia quiche, anno 1983, era il titolo di una guida semiseria «a tutto quel che è davvero macho» ed era il classico libroide che si leggeva ad alta voce alle pizzate del liceo per farsi due risate. Se qualcuno ce l’ha in soffitta potrebbe farmi il favore di vedere cosa diceva alla voce «sandali»? Perché sto cercando di capire come mai tanti uomini li detestano e non sono ancora riuscita a trovare una spiegazione plausibile. Il dilemma mi è stato stimolato da vari tweet di questi giorni: un uomo può presentarsi in sandali al primo appuntamento? C’è qualcosa che fa più schifo di un uomo con i sandali, con o senza calzino? Sono peggio gli uomini pelati o gli uomini pelati coi sandali? Insomma, l’argomento è divisivo. Vabbè, qualunque argomento su Twitter diventa divisivo, ma questo lo è anche fuori dai social. L’abbigliamento e gli accessori sono uno dei pochi campi in cui le opportunità sono sbilanciate a favore delle donne, che possono scegliere tra una più vasta gamma di forme, colori e tessuti e coprirsi o scoprirsi a seconda del clima e dell’umore. L’abbigliamento maschile è per lo più di una monotonia mortale in tutte le

Sul podio degli argomenti più tipici della stagione, nei supplementi estivi dei quotidiani o nei servizi «costume e società» dei telegiornali, corna e tradimenti estivi contendono la medaglia d’oro alle strategie anti-caldo e all’abbandono dei cani ai caselli autostradali. Solo la pandemia era riuscita a sospendere per due anni una secolare epopea di trasgressioni vacanziere che inizia con le dissolutezze dell’imperatore Tiberio nella sua villa di Capri, passa per la Trilogia della villeggiatura di Goldoni e trionfa nella cinematografia da Quando la moglie è in vacanza fino ai cinecocomeri dei fratelli Vanzina, con sullo sfondo il ciuf-ciuf del mitico «trenino dei cornuti», ovvero il convoglio che la domenica sera riportava in città dalle spiagge i mariti che si erano ricongiunti alle mogli per il fine settimana, strappandole temporaneamente alle braccia nerborute dei bagnini. Quest’anno sono tornate le vecchie peccaminose abitudini: a quanto pare la convivenza forzata ha riacceso la voglia di cambiare menù nell’alcova. Anzi, di cambiare proprio chef, tipo di cucina e ristorante, almeno in agosto. E si capisce. Come un ayatollah iraniano, il coronavirus è stato l’arbitro della nostra salute fisica e morale, ha obbligato uomini e donne a coprirsi il viso e a lavarsi ritualmente le mani prima

Fra le poche certezze che ho nella vita c’è quella che non possiederò mai un Rolex. È più probabile che diventi proprietaria di una navetta spaziale, di un acceleratore di particelle o di un elefante indiano che di un orologio inutilmente costoso. Voglio dire: un’auto costosa mi fa andare più veloce. Un abito costoso mi fa sembrare più bella ed elegante e, se azzecco il taglio e il colore, anche più giovane e attraente. Un vino costoso mi fa provare inebrianti sensazioni olfattive e gustative. Ma un orologio costoso? Le sue lancette vanno esattamente al ritmo di quello comprato dai cinesi, e con tutto quel che l’ho pagato non allungherà la mia vita nemmeno di un inestimabile, insostituibile secondo. Per quanto bello, non è in grado di imbellirmi, visto che se ne sta appollaiato laggiù sul polso. E il tipo di inebrianti sensazioni che può dare indossare un Rolex (o un Piaget, o un Patek Philippe o simili) non sono proprio il mio genere, anche perché a quanto pare rischiano di essere di breve durata e di concludersi in modo traumatico, con dei malviventi che se la svignano e un malcapitato che si ritrova senza orologio e con un polso contuso. L’ultimo

In un’estate lontana, più di un trentennio fa, iniziavo il mio apprendistato giornalistico nella redazione riminese di un quotidiano. Io e la mia ancor più giovane collega Francesca Carvelli ci sentivamo croniste d’assalto, e dedicammo una delle nostre prime mini-inchieste allo sfruttamento della prostituzione in Riviera. Allora fra Rimini e Riccione «lavoravano» molte ragazze nigeriane, arruolate in patria da «madam» senza scrupoli con la prospettiva di un lavoro in Italia e poi schiavizzate dai protettori, con i debiti, i pestaggi, le minacce di ritorsioni sulla famiglia e anche con riti magici. Raccogliemmo testimonianze di prostitute e di operatori delle associazioni che cercavano di aiutarle, e insomma, per essere due principianti facemmo un lavoro discreto. In questi giorni mi è sembrato di tornare indietro nel tempo, leggendo il pezzo del Corriere Romagna sul grande ritorno della prostituzione di strada. Le stesse storie di inganni, ricatti, violenze, minacce ai familiari. Niente sembra cambiato, tranne le nazionalità: non ci sono più le nigeriane, probabilmente spostate in altre zone, prevalgono le ragazze dei paesi dell’Est, Romania, Albania, Bulgaria. Agganciate col miraggio di un lavoro, oppure – agghiacciante innovazione – scaraventate sul marciapiede da fidanzati che le cedono ai malavitosi. A quanto pare le ordinanze anti-prostituzione emanate dal

Considerato che mercoledì prossimo sarà una delle giornate più torride degli ultimi settant’anni, la prospettiva di starsene in casa con i condizionatori accesi a seguire la giornata politicamente più torrida degli ultimi vent’anni non è poi così spiacevole. Abbiamo bei ricordi di due anni fa, quando il Salvini in pieno trip da Papeete fece cadere il governo Conte 1 al grido di «voglio i pieni poteri», aggiudicandosi la prima e forse la più clamorosa delle figuracce di cui in seguito è diventato un accanito collezionista. Era l’ultima estate prima del Covid, la socialità extra-domestica era ancora competitiva rispetto alla televisione che ammanniva la solita carriolata di repliche e Techetecheté, e quella diretta dal Parlamento e la lunga Maratona Mentana furono la cosa più appassionante mai passata sullo schermo ai primi di agosto, eccettuate le gare olimpiche. Il discorso del Draghi dimissionario in programma fra quattro giorni ci darà altrettante emozioni? Usciremo dalla prossima settimana con un Draghi che con un supremo sforzo di autocontrollo frena il frenetico roteare dei suoi zebedei e riprende la guida di un governo pentastellati-free? O avremo un governo-traghetto fino alla scadenza della legislatura, magari guidato da una donna, così si fa bella figura a buon mercato, visto

Le Mille bolle blu di Mina non era una canzone. Era una profezia. Sessant’anni fa la Sibilla di Cremona vedeva il nostro presente, un turbinio di bolle grandi e piccole che volano, danzano e ci illudono di essere nel mondo senza esserci veramente. Bolle speculative, bolle informative, bolle sanitarie, ognuno ha la sua o ne ha più di una, da cui si sente protetto e rassicurato: vedi solo certi amici con le tue stesse abitudini, ascolti solo certe opinioni, condivise dai tuoi amici, vai solo in certi posti su misura per chi ha le tue abitudini, i tuoi amici, le tue opinioni. Difficile fare a meno delle bolle metaforiche, ma quelle nessuno intende togliercele, almeno per il momento. Quelle in pericolo sono altre bolle, sempre trasparenti ma più piccole e reali: le bollicine di anidride carbonica che rendono frizzanti acqua minerale e bibite. Grandi aziende di acque minerali sono state costrette a fermare le linee dell’acqua gassata, non solo in Italia ma in tutta Europa: produrre anidride carbonica richiede energia sempre più costosa, quindi se ne produce di meno e la si destina a settori essenziali come la sanità o l’industria alimentare. Ora, l’acqua frizzante è sempre stata divisiva: c’è chi la ama

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