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Ho l’impressione che fino a giovedì scorso non pochi riminesi credessero che un’adunata nazionale di alpini fosse qualcosa di simile al Meeting di Cl, al raduno dei pentecostali o al congresso della massoneria: qualcosa di molto grosso e importante, ma che alla fin fine coinvolge la città solo fino a un certo punto, e di cui beneficiano soprattutto alberghi, bar e ristoranti. Una declinazione più pittoresca del turismo congressuale o fieristico, insomma. A giudicare dalle tante facce di concittadini piacevolmente o spiacevolmente sbalordite, l’esperienza è stata un po’ uno choc anche per chi è un fan delle nostre truppe da montagna e ha accolto il raduno con curiosità, spirito di accoglienza e con un afflato di amor patrio che ha fatto sorvolare su ingorghi e viabilità impazzita. Probabilmente era dal 1945 che a Rimini non si vedevano tanti militari in giro. Ce ne sono letteralmente dappertutto, a tutte le ore, con l’aria di sentirsi a casa loro più di noi. E dove non li vedi li senti comunque nell’aria, con le loro musiche, i loro cori e un vago sentore alcolico che nemmeno la pioggia è riuscita a cancellare. Perché gli alpini sono proprio come ce li hanno sempre raccontati: caciaroni, sbevazzoni,

Essendo cresciuta in Friuli, dove tutti hanno almeno un alpino nell’albero genealogico, le penne nere mi stanno simpatiche. “Sul cappello sul cappello che noi portiamo” è una delle prime canzoni che ricordo, me la cantava mio babbo quando ero piccolissima. Lui non ha fatto l’alpino e non ha un ricordo epico della sua naja, ma anche chi non ha un particolare feeling con armi e divise guarda gli alpini con occhio rispettoso e benevolo. Non perché siano meno soldati degli altri, ma perché nel nostro immaginario sono legati all’idea del sacrificio, della pazienza, della lealtà, di uno spirito di corpo temprato dalle sofferenze più che dalle imprese guerresche. Quando cantiamo le canzoni degli alpini (e due o tre le conosciamo tutti) ci dimentichiamo che sono canti di guerra e ci sentiamo dentro qualcosa che ci appartiene e ci commuove, anche se siamo nati e cresciuti in tempo di pace a due passi dal mare, e in montagna ci siamo stati solo in vacanza. Sarà bello veder sciamare per le nostre vie migliaia di penne nere, affluite a Rimini per un raduno che non potrà non svolgersi nel migliore dei modi, considerato che, causa pandemia, abbiamo avuto un anno in più per prepararlo. Perché,

Lo so che non è proprio quello di cui bisognerebbe parlare la mattina di Pasqua, ma ve la ricordate la mucillagine, il tappeto maleodorante di alghe che ha funestato il turismo riminese nel 1990? Dopo più di trent’anni, fa ancora quasi paura nominarla, come se solo evocarne il nome – e in un momento così delicato per la ripresa dell’industria delle vacanze dopo la pandemia – rischiasse di materializzarla di nuovo. La paura è comprensibile. Ci può essere qualcosa qualcosa di peggio, per una città votata al turismo balneare, di una puzzolente poltiglia marrone che rende il bagno in mare un’esperienza tipo palude Stigia dell’Inferno dantesco? Ebbene sì. Il peggio è una spiaggia disseminata di siringhe sporche nascoste nella sabbia, pronte a pungere il piede del bagnante che fugge schifato dall’acqua. Che è proprio quello che, a quanto pare, ci siamo risparmiati in quegli anni, stando alle rivelazioni del mafioso Gaspare Mutolo, sicario affiliato al clan dei Corleonesi. Scherano di Totò Riina, un’impressionante somiglianza con l’Aldo Giuffré di La ragazza con la pistola, a quei tempi Mutolo, oltre che ad ammazzare chi faceva sgarri al boss si dedicava ai furti nelle ville del Nord, aveva una base proprio a Rimini, in via Garibaldi,

Fragheto, villaggio della zona di Kiev. Bucha, borgata della Valmarecchia. Est e Ovest, storia e presente si confondono nel sangue di vittime innocenti, ora come allora: anziani, donne, bambini. Chissà se a Fragheto, che il 7 aprile del 1944 fu teatro di un eccidio perpetrato dalle truppe nazi-fasciste, le scioccanti immagini dei massacri in Ucraina sembrano attualità o portali temporali che li portano al tempo dei loro nonni. Perché cambiano le divise, cambia la lingua, ma la procedura è sempre la stessa: furia sanguinaria, saccheggio, incendio. E impunità, o semi impunità, per i carnefici. I collaboratori italiani della strage vennero amnistiati, il procedimento contro i militari tedeschi rimase incagliato fino al 2006 e si trascinò fino al 2013; si concluse con l’assoluzione degli unici due imputati ancora viventi, mentre sul terzo non venne emesso il verdetto perché era morto durante il processo. La vera differenza, forse, sarà che il processo contro i boia di Fragheto fu ritardato dal famigerato “armadio della vergogna”, l’archivio delle stragi naziste che si volevano insabbiare per opportunità politica, che fu chiuso nel 1960 e venne riaperto solo nel 1994, mentre per i massacri russi in Ucraina qualcuno ha voluto intorbidare la verità al primo diffondersi delle

Si capisce benissimo perché il nuovo decreto sull’allentamento delle misure anti-Covid è entrato in vigore il primo di aprile. È un rompicapo per solutori più che abili. Per essere precisi, sembra una versione ampliata e più complicata del Twister, il famoso gioco in cui bisogna fare i contorsionisti su un tappeto di plastica per toccare con la mano o col piede le caselle secondo il colore indicato da una freccia su una tavoletta. Al posto del tappeto c’è la città, le caselle sono i negozi, i locali e i mezzi pubblici, e il nuovo decreto è la tavoletta impazzita che prescrive se, quando e come puoi accedere a questo o a quello. Per andare al ristorante al chiuso ci vuole il green pass, per l’albergo non serve. Ma ci vuole la mascherina? E quale tipo, chirurgica o Ffp2? E se uno vuol fare colazione nel ristorante dell’hotel o prendere un caffè al bar della hall? Ci vuole green pass base o rafforzato? Sui treni a lunga percorrenza ci vogliono ancora green pass e mascherina Ffp2, ma se il treno locale diventa a lunga permanenza causa immancabili ritardi cosa dobbiamo esibire, oltre al fastidio? In pratica una persona con una normale vita

Se è una strategia per riportare l’amico Putin alla ragione, bisogna ammettere che è geniale. Parlo della gravidanza (non confermata ma nemmeno negata) di Marta Fascina, fresca non-moglie di Berlusconi. Secondo un insistente gossip l’avvenente deputata di Forza Italia, recentemente impalmata da Silvio in un chiacchieratissimo non-matrimonio nella cappella di Villa Gernetto, porterebbe già in grembo il suo sesto figlio. In molti si erano chiesti perché Silvio non aveva ancora rilasciato dichiarazioni ufficiali, condanne o appelli al vecchio compagno di bisbocce che dal 24 febbraio sta massacrando l’Ucraina. Ebbene, se i fatti contano più delle parole, il Cavaliere sta lanciando al leader russo un messaggio muto ma chiarissimo e molto più efficace degli anatemi di Biden: dammi retta, Vladimir, i bambini è meglio farli che bombardarli. Mentre tu nel tuo bunker solitario straparli di invasioni e riconquiste, io ho conquistato una bella bionda che ha cinquantaquattro anni meno di me, e nel bel lettone che mi hai regalato tanti anni fa ho messo in cantiere un altro bebè. Queste sono le vere gioie della vita, amico mio, non le denazificazioni a suon di missili. Su, pirla di un Vladimir, spendi meglio quel po’ di testosterone che ti rimane, lascia perdere la guerra.

Non si è salvato nemmeno Yuri Gagarin. Dopo Dostojevskij e Ciaikovskij, la russofobia retrospettiva colpisce il primo uomo che viaggiò nello spazio: la Space Foundation, organizzazione americana no-profit nata nel 1983, ha cancellato il suo nome da una serata a lui dedicata, la “Yuri’s Night”, “alla luce degli eventi in corso”. Non c’è bisogno di ricordare che Gagarin, oltre che il primo, fu forse l’uomo più simpatico mai uscito dall’atmosfera terrestre, sia per la sua storia (figlio di contadini, cresciuto tra le sofferenze della guerra, fece l’operaio e il marinaio prima di scalare il cielo), sia per la sua umanità (“Guardando la Terra da così lontano capisci che è troppo piccola per le guerre, può esserci solo cooperazione”), sia per la sua tragica fine (morì in un incidente aereo a soli 34 anni). Vista l’assurdità di questa censura, sorge il sospetto che gli americani aspettassero dal 12 aprile del 1961 l’occasione per fare un dispetto postumo al russo che osò precederli nella corsa allo spazio e abbiano approfittato dell’invasione dell’Ucraina voluta da Putin – evidentemente la repressione in Cecenia e la guerra in Siria non avevano scosso abbastanza l’opinione pubblica Usa. Non fa piacere rendersi conto che anche l’ottusità, come il Covid

Sono freddolosa. Ma proprio tanto. Ho mani e piedi gelati tutto l’anno, tranne un paio di settimane fra luglio e agosto, le uniche in cui riesco a fare a meno del piumone, e l’acqua fredda la sopporto solo dentro un bicchiere, quando esce da una doccia è la peggiore delle torture. Grazie ai misuratori di temperatura spuntati ovunque in epoca Covid, ho scoperto che la mia temperatura normale non arriva a 36°, tanto che ho cominciato a sospettare di avere qualche parentela con i rettiliani, considerato che oltre all’eterotermia ho pure gli occhi verdastri. In questo caso la teoria complottista sugli uomini-lucertola propalata da David Icke non regge, perché, come rettiliana, io dovrei far parte dei potenti della terra e nutrirmi di sangue umano anziché avere il cuore in gola pensando alla prossima bolletta del gas e farmi tisane bollenti allo zenzero per scaldarmi le mani stringendo la tazza. Le mie dita armeggerebbero con le leve del potere planetario, non girerebbero tremanti la manopola del termostato di casa per posizionarla sui 18° anziché sui consueti e confortevoli 20°. No, non sono una rettiliana. Sono una semplice cittadina che si prepara a fronteggiare una stagione di durissima austerity, e la mia unica fortuna

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