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I genitori, soprattutto noi mamme, lo confessano sottovoce, lanciandosi furtivi sguardi d’intesa: uno dei pochi, pochissimi lati positivi della pandemia è di averci affrancato dalle corvée delle feste scolastiche per due anni consecutivi. E per quanto ci vergogniamo ad ammetterlo, non è così male che l’ultimo giorno di scuola sia l’ultimo giorno di scuola e basta, o quasi, come quando eravamo piccoli noi: al massimo un saluto nel cortile, un canto tutti insieme, all’insegna della brevità e della semplicità. Niente maratone in cucina per preparare crostate, niente telefonate trafelate in pasticceria per ordinare pizzette last-minute perché le crostate si sono bruciate. Niente chat di classe roventi per capire chi deve portare i bicchieri di plastica e chi allestire il rinfresco riservato ai celiaci. Non abbiamo dovuto setacciare i negozi alla ricerca di indumenti per la recita dei pargoletti, in genere articoli fuori stagione e dai colori improbabili che si useranno solo per un giorno, tipo calzamaglie verdi o tee-shirt marron, reperibili al massimo in rete, ma perché arrivino dalla Cina in tempo si sarebbero dovuti ordinare due mesi prima. E c’è sempre la mamma che dice «Bè, che c’è? Si prendono bianchi e poi si tingono in casa», ma il risultato sono

«Com’era vestita?» Sarebbe bello che questa domanda, immancabile espediente per la colpevolizzazione delle vittime di stupro, fosse solo un relitto del passato, ma purtroppo non lo è: in troppi ancora credono, o fingono di credere, che basti una gonna lunga e un atteggiamento modesto a scoraggiare le aggressioni, e che la superficie di pelle scoperta sia direttamente proporzionale ai rischi di essere molestate. Al di là dell’odioso tentativo di alleggerire le responsabilità dell’aggressore in quanto «provocato», la cronaca si è più volte incaricata di dimostrare la falsità dell’assioma, non solo registrando fin troppi episodi di violenza ai danni di donne in tuta da ginnastica o  di signore in età con abiti castigatissimi, ma anche mostrandoci che, viceversa, donne realmente seminude o completamente nude hanno potuto girare per strada senza che nessuno gli saltasse addosso, finché non sono intervenute le forze dell’ordine. Il caso più clamoroso è accaduto quattro anni fa a Bologna, dove una ragazza in costume adamitico, anzi, evitico, in una bella sera di luglio ha passeggiato indisturbata da via San Donato alla Stazione centrale passando per via Irnerio (zone non proprio ben frequentate, specie dopo il tramonto) ed è stata fermata solo dalla Polfer e dopo essere stata immortalata da

Forse è il caso di avvertire «Chi l’ha visto?» e aspettare che mercoledì sera l’infallibile Federica Sciarelli annunci con la sua voce tesa e accorata: «Siamo alla ricerca del signor Mese di Maggio, trentun giorni, che da diversi anni è sparito dalla sua abituale dimora, la stagione primaverile, fra aprile e giugno. Si presentava sempre il giorno della Festa del Lavoro e se ne andava poco prima della Festa della Repubblica. Appassionato di floricultura, in particolare di rose, ce lo descrivono come un mese solare, quasi estivo, specie verso la fine. Dettaglio molto importante: è un grande devoto della Madonna». Se nei pochi giorni che ci separano da giugno non ci arriverà qualche segnalazione, sarà passato un altro anno in cui i trentun giorni fra aprile e giugno sono uno stallo meteorologico con il meteo che al massimo concede un “variabile”, quasi mai nei fine settimana in cui al sabato e/o alla domenica piove, e il termometro che si avventura raramente oltre i venti gradi e sconsiglia di archiviare calze e calzini e di accorciare le maniche. E non è che dal primo giugno le cose cambiano di colpo, di solito la stagione si mantiene scorbutica almeno per l’inizio del mese, finché

Ne stiamo davvero uscendo. La prova più convincente non sta nei numeri giornalieri di contagiati, deceduti e ricoverati, in calo costante, né l’accesso degli over-50 alle prenotazioni del vaccino. È evidente che stiamo uscendo dalla pandemia perché sono ritornati tipici fenomeni psicometeorologici cittadini che erano scomparsi nel marzo di un anno fa: le tempeste in un bicchier d’acqua. Pertanto è con vivo sollievo e col sorriso sulle labbra che commentiamo il caso del tacco vietato nell’istituto comprensivo Zavalloni di Riccione, e della protesta delle mamme contro il provvedimento che, in nome della sicurezza, le vuole tutte coi talloni rasoterra. A quanto pare, il preside dello Zavalloni, Nicola Tontini, intende solo garantire la sicurezza all’interno dell’istituto ed evitare incidenti che coinvogerebbero l’assicurazione della scuola, ma le genitrici sono insorte rivendicando il loro diritto ad accedervi con le calzature che preferiscono. Che bello, dopo un anno e mezzo, non dover discutere di tristi querelle scolastiche relative a mascherine, disinfettanti, banchi a rotelle ed effetti nefasti della didattica a distanza, ma dell’altezza dei tacchi delle mamme. Quelle dello Zavalloni, per inciso, devono essere di una specie particolare. Avendo quattro figli, ho bazzicato per anni varie scuole riminesi, pubbliche e no, e in tanti anni di mamme con

Capisco che non tutti possono avere un sindaco come il nostro, che il 25 aprile in piazza Tre Martiri ha fatto un discorso perfetto, emozionante ed emozionato. Credo altresì che nessuno meriti un sindaco come Enrico Valentini, leghista, primo cittadino di Gualdo Cattaneo (Perugia), che confonde “antisemita” con “antirazzista” e si caccia in un pasticcio che, nell’era dei social, ha il potenziale di una bomba all’idrogeno. Nel rifiutare la cittadinanza onoraria a Liliana Segre, in quanto “non ha legami con il territorio” - tipico pretesto usato dai sindaci di destra per non concedere la cittadinanza a celebrità che non la pensano come loro, specie riguardo all’immigrazione e ai diritti - Valentini ha pubblicamente affermato e ribadito davanti alle telecamere di essere antisemita, anzi, “convintamente antisemita”. Nota bene: pochi anni fa il sindaco di Gualdo, per dare lustro al suo Comune, aveva invitato Jennifer Lopez, che col territorio umbro ha uguali o minori legami che con la Papuasia, ma che evidentemente sta molto simpatica al sindaco Valentini. Altra nota: la senatrice Liliana Segre, che Dio ce la conservi, non solo è una sopravvissuta alla Shoah, ma attualmente è la più nobile icona italiana della lotta contro ogni discriminazione. Con queste premesse, l’“io sono antisemita”,

Probabilmente ora, nel paradiso degli artisti, sta provando un nuovo allestimento di un’opera appena scritta da Bertolt Brecht con la regia di Strehler, che aspettava solo lei per metterla in scena. Ma anche se la malattia l’aveva da tempo allontanata dai palcoscenici e la sua chioma fiammante non incendiava più il piccolo schermo, Milva ci manca ancora di più, ora che se n’è andata per davvero. Proprio mentre le sue compagne della Great Generation della canzone italiana al femminile, Mina, Ornella Vanoni, Patty Pravo, Orietta Berti, e mettiamoci pure Loredana Berté anche se è di alcuni anni più giovane, stanno facendo scintille, scalano le classifiche, giocano con i social, provocano, insegnano e conquistano l’ammirazione e la stima anche di chi è nato quando loro erano già nonne. Che peccato avere perso proprio lei, la Pantera dalla mascella volitiva e dall’occhio fermo e felino, che ha ruggito a Berlino e a Parigi e ha ispirato geni della musica, senza mai dimenticare le sue radici, con l’eleganza severa dei popolani con la schiena dritta che abitavano la terra di Matteotti e di don Minzoni. Che peccato avere perso Milva proprio a ridosso del 25 aprile, una festa in cui sicuramente lei credeva, senza

Nell’anno della pandemia mi sono ammalata di Covid ma - non so se le due cose sono collegate - sono guarita da un disturbo che mi affliggeva fin dalla fanciullezza: il pollice nero. Una sindrome letale - non per me, ma per qualunque forma di vita vegetale affidata alle mie cure, pianta grassa o da fiore, stagionale o perenne, rampicante o aromatica, amante del sole o dell’ombra. Appena la povera creatura si rendeva conto di coabitare con me, si ammosciava e si lasciava morire. Non importava se e quanto la innaffiavo, come la esponevo o la rinvasavo, se le parlavo o la ignoravo, aveva un solo obiettivo, tornare all’humus da cui veniva, il prima possibile. Me ne ero fatta una ragione e mi ero rassegnata alle piante di plastica, all’Ikea ne hanno di bellissime e molto realistiche. Poi, durante il lockdown dell’anno scorso, i figli mi hanno fatto notare che le piante erano gli unici esseri viventi che si potevano ricevere in casa propria senza incorrere nelle sanzioni della legge. Nessun dpcm vietava assembramenti di gerani né imponeva distanziamento sociale fra le begonie, e il confinamento apriva larghi e inusitati spazi di tempo libero perfetti per il giardinaggio, che avrebbe portato in

“Tornare in zona arancione” per noi donne non significa uscire solo dalla zona rossa. Vuol dire anche uscire dalla zona grigia o zona nera - con riferimento alle nostre capigliature, beninteso. Perché finalmente riaprono i parrucchieri e su WhatsApp è tutto un fioccare di suppliche per fissare al più presto un appuntamento, anche a ore impossibili, pur di far cessare al più presto la tortura e il ludibrio di circolare con ricrescite a vista e tagli ormai privi di qualunque forma umana. Se l’anno scorso i capelli in disordine erano prova di virtù e di rispetto delle regole del lockdown, tanto che perfino autorevoli anchorwoman esibivano con fierezza due dita di capelli pepesale, ora la non-acconciatura da pandemia ha perso ogni fascino e, anzi, dà l’ultimo tocco di tristezza a un look che risente di mesi di palestre chiuse, di centri estetici blindati e di demotivazione allo shopping. Chi non ha fra le sue conoscenze un’amica che sa cavarsela con forbici, tubetti e pennelli ha rimediato alla buona con i mascara per capelli, i prodotti per il ritocco casalingo o con le tinture da supermercato. E così per i parrucchieri il sollievo per poter finalmente riaprire si associa all’ansia di dover rimediare

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