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Le donne lo sanno: quando si è incerte davanti al guardaroba per un evento importante, col bianco e nero non si sbaglia mai. I due colori-non colori, uno che li nega tutti, l’altro che li riassume, l’alfa e l’omega della scala cromatica, sono la soluzione di ogni dubbio in fatto di look.  E il grigio, in tutte le sue sfumature dall’antracite al perla all’argento, passando dalle nuances zoologiche come il grigio talpa e il grigio topo, è il colore “fine” per antonomasia. Anche dal parrucchiere il grigio oggi è il massimo dello chic fra le tinture per capelli, tutto sta a trovare la gradazione che ci dà classe senza invecchiarci - esattamente come nel Settecento, quando bianco-grigie erano le parrucche della nobiltà. E l’eleganza delle foto in bianco e nero, che hanno una dignità da documento storico anche quando sono banali scatti di vacanze al mare? Per non parlare del cinema, dove bianco e nero è sinonimo di antica gloria o di pensosa ricerca artistica. Dove va a parare questo palloso preambolo? Lo avrete capito. Al fatto che della vita a colori - rosso, rosso scuro, arancione, giallo, e mettiamoci pure il verde delle nostre tasche - ne abbiamo tutti le scatole

Fra gli incipit meno indicati per un articolo di giornale c’è sicuramente “Racconta Plutarco che

I Bee Gees l’avevano previsto, quando scrissero uno dei loro più grandi successi, l’inno della disco-music: Staying Alive, letteralmente “rimanere vivi”: “Che tu sia un fratello o una madre, noi restiamo vivi, la città si spacca, la gente trema e noi restiamo vivi”. Cinquant’anni fa sembrava solo l’esaltazione della frenesia giovanile sul dancefloor, oggi, nell’era della pandemia, lo comprendiamo nel suo vero senso: è l’inno dei vaccinati contro il coronavirus. E quindi non stupisce che a offrire i loro locali come punti per la vaccinazione di massa siano i gestori delle discoteche, per voce del loro rappresentante, Gianni Indino. Siamo chiusi da mesi, dice il comunicato del Sindacato italiano locali da ballo, molti di noi non riapriranno più, ma nel frattempo possiamo e vogliamo dare il nostro contributo alla battaglia contro il virus: se prima venivate da noi a divertirvi, ora veniteci per garantire a voi stessi e agli altri la possibilità di poter presto tornare a divertirci in sicurezza, in discoteca, ma anche al cinema, a teatro, al ristorante, “staying alive” tutti quanti. Mi sembra un’ottima idea, e anche un esempio per tutti, in un momento in cui tante categorie reclamano giustamente attenzione per i danni spesso irreversibili inflitti dalla pandemia alle

Possiamo vederla dal lato positivo: gli sconosciuti che nei giorni scorsi hanno creato un profilo Facebook del sindaco Gnassi che prometteva 250 euro a venti “nuovi amici” (ne ha parlato ieri Chiamamicittà.it) gli hanno fatto un complimento. L’intento truffaldino c’era, indubbiamente. Ma per catturare l’attenzione e la fiducia dei polli i pirati digitali non hanno trovato miglior specchietto per le allodole del nostro Gnassone. E’ un po’ come quando ti rubano la foto per architettare la famigerata “truffa romantica”, reato che continua a mietere vittime tra le signore di mezza età. Vengono agganciate sui social da sedicenti ufficiali o fascinosi perseguitati che dopo averle blandite, corteggiate e illuse con progetti di convivenza o matrimonio, mandano loro drammatici appelli chiedendo mille o duemila euro per ottenere la scarcerazione da un arresto ingiusto o da un sequestro - e poi, ovviamente, spariscono. Le povere vittime non cascherebbero con tutti e due i piedi nella trappola se il seduttore non apparisse in foto come un bell’uomo dall’aria affidabile e simpatica. I criminali si procurano queste foto semplicemente rubandole in rete a ignari 40-50enni in giro per il mondo e mettendoci un nome di fantasia. Sono anni che la trasmissione Chi l’ha visto? censisce i truffatori

Stefano il torrepedrino che ha fatto il bagno in mare a mezzogiorno di Capodanno: eroe o scriteriato. Lo so, il tuffo il primo di gennaio è una tradizione diffusa dal mare del Nord al Mediterraneo, ma non ho mai capito dove inizia la sfida un po’ pazza e beneaugurante per l’anno appena iniziato e dove inizia il bisogno di un trattamento choc per riprendersi dalle sbronze di san Silvestro. A dire la verità, io non ho un gran rapporto con l’acqua sotto i 25 gradi nemmeno d’estate, e penso che sia buona al massimo per l’irrigazione. Datemene un bicchiere e sono a posto. La civiltà dell’acqua calda mi ha rammollito, e alla prospettiva di un bagno o doccia fredda, tutte le mie fibre si irrigidiscono come gatti arrabbiati, anche se dicono che rassodi i tessuti e fosse il segreto di bellezza di tante maliarde della storia, da Diana di Poitiers all’imperatrice Sissi. Per questo provo una certa ammirazione per la tempra di chi alle dodici del primo gennaio, anziché guardarsi in vestaglia il concerto di Capodanno, si mette in mutande e corre a buttarsi in acqua. Certo però che mai il tuffo in mare sembra incomprensibile quanto all’alba del 2021. Metti che,

L’hanno chiamato “il regalo di Natale arrivato da Pompei”. La contraddizione fra la ricorrenza cristiana e il mittente pagano è solo apparente: se l’evento commemorato il 25 dicembre è la nascita di Gesù, la data in cui la tradizione l’ha collocato è quella in cui fino al III secolo si celebrava la nascita del dio Sole, a ridosso delle feste dei Saturnalia, in cui i Romani si scambiavano doni chiamati “strenae”. Niente di strano se proprio in questi giorni Pompei, città diventata sinonimo di catastrofe, invii un regalo a un Occidente che sta affrontando una catastrofe, seppure di altro genere. Regalo indovinato e significativo: un “thermopolium”, cioè, tecnicamente, una tavola calda, situato nella Regio V della città sepolta. Emerso nel 2019, è stato scavato e studiato anche durante i mesi del lockdown, per poterci offrire nell’ultimo scorcio di questo tremendo 2020 una visione dei suoi affreschi dai colori smaglianti e della sua struttura così pratica e moderna, simile ai self-service degli autogrill. Mentre tutta l’Italia è in zona rossa, con bar e ristoranti chiusi, l’unico locale aperto è una tavola calda vecchia di venti secoli, nel cui bancone, provvisto di scomparti per le varie pietanze, ci sono ancora avanzi di cibo. Nel locale

Cosa mi fa più rabbia nel manifesto dell’Associazione Pro-Vita contro la pillola abortiva, che il Comune ha giustamente bandito dai muri di Rimini? Ovviamente, da sostenitrice del diritto all’aborto, non condivido i fini della campagna, anche se ogni opinione è lecita e deve poter essere liberamente espressa e argomentata. Non mi è mai piaciuto il monopolio sul termine “vita” che gli antiabortisti di tutto il mondo si sono accaparrati. Come se chi la pensa diversamente fosse pro-morte, e non a favore di una genitorialità consapevole, e, in ultima analisi, dell’autodeterminazione della donna, che non è una macchina di carne predisposta da Dio per l’emissione regolare di neonati, una specie di Bimbomat dove infili un seme e legittimamente di aspetti di prelevare un pargolo dopo nove mesi. L’aborto deve essere gratuito, sicuro e soprattutto raro, requisito, quest’ultimo, che andrebbe assicurato con un altre cose che i Pro-Life detestano, e cioè una corretta educazione alla salute sessuale fin dalle scuole elementari, il potenziamento dei consultori, la disponibilità di anticoncezionali moderni e sicuri. Ma il discorso è lungo, e poi a dire il vero ci sono altre cose che mi disturbano nel manifesto dei Pro-Vita, che mostra una fanciulla biancovestita, esanime, con una mela morsicata in

Certo che come pensata pubblicitaria è ottima. Se qualcuno fino a ieri non aveva mai sentito parlare dell’Altro Bar di Riccione, oggi lo conosce: è il locale dov’è proibito parlare di Covid. Solo che sintetizzata così, così, schiaffata nuda e cruda sulle locandine, la notizia potrebbe far pensare a una taverna di negazionisti che ancora credono si tratti di una banale influenza strumentalizzata dai poteri forti e pompata dai media a loro asserviti. Un posto dove, se entri con la mascherina, ti prendono come minimo a male parole, e se cerchi l’igienizzante il barista ti butta fuori, alitandoti in faccia. E invece no: come hanno spiegato i gestori, si tratta di semplice saturazione: “Si può parlare d’altro, almeno per il tempo di un caffè”. E’ un piccolo servizio in più che offrono alla loro clientela: cinque preziosi minuti di stacco dal flusso di virus-mania in cui siamo immersi, una piccola pausa per igienizzare il cervello. Sembra una cosa da niente, ma oggi è quasi più facile creare un ambiente Covid-free dal punto di vista psicologico che da quello comunicativo. E per chi lavora in un bar potrebbe servire come necessaria autodifesa mentale. Tutti noi durante il giorno parliamo spesso di coronavirus, l’argomento

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