Written by

Top Stories

Perché oggi voglio parlare di Enrico Montesano? Perché a casa mia si sta verificando da qualche giorno uno stranissimo, imprevisto fenomeno: il comico romano, oggi 75enne, è diventato l’idolo dei miei figli. E’ un tipo di idolatria caratteristico degli adolescenti di oggi, al confine tra culto e sberleffo, che svuota di realtà il personaggio e ne fa qualcosa a metà fra l’icona e lo zimbello - un meme, come si dice oggi. E’ già successo a Berlusconi, che la prole ha imparato a conoscere attraverso le imitazioni di Maurizio Crozza e ora vede come un nonno gaglioffo e simpaticamente rimbambito, ma tutto sommato simpatico (sicuramente più simpatico del suo nemico storico, Marco Travaglio). Poi hanno riscoperto il Massimo Boldi dei cinepanettoni, in cui i miei ragazzi trovavano qualcosa del clown Pennywise di It. Ora tocca a Montesano, che ha raggiunto i giovani attraverso il suo canale YouTube ed è rimbalzato agli onori della cronaca e dei social con le sue ultime dichiarazioni riguardo al Covid (le mascherine non servono anzi fanno male) e sul 5G (una sordida cospirazione per controllarci tutti). Su YouTube si serve di una sua vecchia macchietta, il citrullo figlio di papà, per sfottere noi minchioni che rispettiamo fiduciosi le

Non capita spesso, anzi, non capita quasi mai, ma a volte capita: un compito di latino, greco o matematica bizzarramente difficile o pieno di trabocchetti manda a gambe all’aria i bravi e gli sgobboni, quelli candidati ai nove e ai dieci, sempre preparati e sicuri di sé, mentre a sorpresa il voto migliore lo prende l’ultimo della classe perché, pur fra cancellature e ripensamenti perfino in bella copia, se l’è cavata molto meglio degli altri. Non basta: viene pubblicamente lodato dal preside e additato ad esempio. Non sto parlando dell’esame di italiano di Suarez all’Università per stranieri di Perugia, ma dei risultati italiani nel controllo della pandemia, rispetto a paesi che ci superano regolarmente nelle classifiche su qualunque cosa, dall’istruzione alla quantità di occupati, dal welfare alle spese per la cultura. Loro sempre primi della classe, noi sempre ultimi, e quasi sempre meritatamente. Ma un giorno arriva un supplente nuovo, di nome Covid-19, e dà un compito a sorpresa, che sfida le conoscenze consolidate, ed ecco che gli ultimi diventano i primi, non certo con aiutini e imbeccate alla Suarez. Guardare il filmato che l’Oms ha dedicato alla risposta italiana all’emergenza coronavirus provoca emozioni contrastanti: in inglese siamo sempre sul filo della sufficienza,

Il nome del liceo, «Socrate», sembrava una garanzia: il filosofo ateniese, benché sposato, non era un grande estimatore della bellezza femminile. Se doveva sbirciare delle gambe nude, erano quelle slanciate e muscolose degli efebi che frequentavano la sua scuola. Ma per gli insegnanti dell’istituto a lui intitolato, nel quartiere Garbatella di Roma, a quanto pare le gambe troppo scoperte delle studentesse sono un’attrazione irresistibile, specie con i nuovi banchi monoposto che non lasciano nulla all’immaginazione. «Ai professori cade l’occhio», avrebbe detto la vicepreside del liceo romano ad alcune liceali che indossavano la minigonna, raccomandando loro un abbigliamento più modesto. E’ chiaro che la vicepreside non ha figli adolescenti, altrimenti saprebbe che il modo più efficace per indurre dei teenager a vestirsi di più è ordinargli di vestirsi di meno. Vera o presunta che sia, su ragazze cresciute fra MeToo e TikTok la frase della dirigente ha avuto l’effetto di un fiammifero in un pagliaio: ovviamente, le studentesse hanno risposto invitando «tutte e tutti» a presentarsi a scuola con la gonna, possibilmente corta – e sarebbe bello che qualche studente avesse raccolto l’invito per solidarietà con le compagne, anche in omaggio all’antica Grecia: lì uomini e donne portavano il chitone che, stringi stringi,

Pronti per ballare il tip tap su una polveriera? Se avete figli in età scolare, dalla scuola dell’infanzia alle superiori, avete capito subito di cosa sto parlando. Da domani mattina diventeremo tutti giocatori d’azzardo, anche se non siamo mai entrati in un casinò, nemmeno online. Le fiches sono i nostri figli, che ogni mattina getteremo sul tavolo verde della scuola in tempo di pandemia, nella speranza che non tornino febbricitanti e tossicchianti. Io che fino all’altro ieri non ero catastrofista riguardo al ritorno a scuola e compativo le cassandre che vaticinavano scenari da tregenda, dopo la prima riunione con i docenti di mio figlio ho cominciato a sentire un lungo brivido nella schiena. Ammesso che sia possibile convincere bambini e ragazzi a fondersi con la sedia e non muoversi dal banco per cinque ore, a parte qualche minuto di ricreazione in cui potranno sgranchirsi le gambe e abbassarsi la mascherina solo per il tempo necessario a ingollare una merendina sanitizzata, per quanto tempo potrà durare? Quanto potranno resistere i bambini a tanti divieti, a tante rinunce? Non è una domanda retorica: i bambini potrebbero tener duro a lungo, e molto meglio di noi. Che nell’emergenza coronavirus il senso di responsabilità sia

Mi preoccupa il fatto di non riuscire a preoccuparmi per la salute di Silvio Berlusconi, risultato positivo al Covid – per ora è questa l’unica certezza, il resto è una ridda di diagnosi mutanti: asintomatico, ma con sintomi che però sono già spariti ma forse no, è stato ricoverato al San Raffaele per accertamenti, no, per un principio di polmonite bilaterale, ma continua a partecipare alla campagna elettorale. La non preoccupazione mi preoccupa non perché sia segno di cuore duro, ma di cervello tenero, direi infantile. Non sono tranquilla perché penso “chissenefrega, se ne ammalano tanti”, o, peggio, perché mi fa velo il rancore politico, ma perché sotto sotto sono fermamente convinta che il Cavaliere, pur anziano e acciaccato, ci sotterrerà tutti. Vuoi perché nel corso del tempo l’archiatra berlusconiano, il dottor Zangrillo, deve aver sostituito tanti pezzi del suo corpo che la sua affermazione “Silvio è tecnicamente immortale” potrebbe non essere un’iperbole, vuoi perché, anche senza interventi biotecnologici, quell’uomo è di una fibra psicofisica solidissima. Nel corso della sua lunga vita ha superato brutte malattie e interventi chirurgici di ogni genere, dal trapianto di capelli agli aggiustamenti di organi vitali, tour-de-force giudiziari che stroncherebbero un normale essere umano, un sessantennio di debosce

«La madre fa shopping e si perde il figlio di cinque anni. Ritrovato dalla polizia»: così un quotidiano locale online strilla l’episodio avvenuto venerdì scorso a Rivazzurra. Un titolo costruito apposta per suscitare subliminalmente lo sdegno dei probi lettori contro la genitrice degenere. Già «fa shopping» ci proietta in zona Balocchi e profumi, la vecchia canzone strappalacrime in cui una mamma frivola e insensibile spende tutto in ciprie e profumi Coty e non caccia un soldo per comprare un giocattolo alla sua bambina. In inglese shopping vuol dire banalmente «spesa», ma a un orecchio nostrano una mamma che fa la spesa è una brava massaia, mentre una che fa shopping si dedica probabilmente ad acquisti voluttuari destinati per lo più a se stessa, una svampita compulsiva tipo la Becky di I love shopping. Poi c’è il «si perde il figlio», dove il “si” potrebbe essere riflessivo, ma sembra più un dativo etico riferito enfaticamente alla madre, per sottolineare il suo scarso senso di responsabilità. Tanto più che a ritrovare il bambino non è lei stessa, ma «la polizia», che, come una supermamma in divisa che vede e provvede, interviene a colmare le deficienze delle mamme normali. Più avanti l’articolo specifica, non si

E niente, un’estate senza la notizia che mette insieme fascismo e Riviera romagnola, e ci fa passare per biechi nostalgici del ventennio dei suoi valori ripudiati dal mondo civile, proprio non riusciamo a risparmiarcela. Un anno c’è l’albergatore che non vuole un cameriere nero, l’altr’anno c’è il mercatino con i busti del duce. Nemmeno l’estate del Covid-19 (numero evocativo, del resto, il 1919 è l’anno di fondazione del Partito nazionale fascista) ci ha negato l’umiliazione di vedere la nostra zona finire sui giornali a causa dell’ennesima gaffe targata fascio: il cameriere di un ristorante di Viserbella che, nell’atto di servire clienti senegalesi, fa il saluto romano a un’immagine di Mussolini e gli dice “scusa Benito”. Giuste e prevedibili le reazioni indignate delle autorità, benvenuti gli atti riparatori come l’offerta di un soggiorno alla famiglia insultata, da parte di un hotel viserbellese. Ma oltre a queste belle cose ci vorrebbe un sacrosanto “gnurènt” gridato in coro all’indirizzo del cameriere – perché, in ultima analisi, uno che nel 2020 rimpiange Benito Mussolini quello è: un ignorante. E la miglior cura per questo tipo di ignoranza nostalgica, dovuta all’insoddisfazione (comprensibile) per un presente complicato e pieno d’incognite, è un libro uscito da qualche mese. L’autore è

E’ pazzesco come un tocco di colore possa cambiare la percezione del passato. Chi ha visto su RaiStoria i filmati restaurati della Grande guerra si è reso conto come sia il bianco e nero a rendere quei volti e quei paesaggi così distanti da noi. Quando le facce diventano rosee, le divise blu e grigioverdi e il cielo azzurro, gli spezzoni di battaglie vecchie di un secolo sembrano usciti dai tiggì che vediamo all’ora di cena, quei soldatini diventano improvvisamente ragazzi come i nostri, solo un po’ più magri e sparuti. E anche le riprese girate lontano dai campi di battaglia, nelle strade e nei giardini delle case, ci dànno un brivido: le famiglie sorridenti, sullo sfondo del più sanguinoso e insensato conflitto della storia, assomigliano alla nostra e sembrano molto più moderne e naturali dei personaggi di una serie in costume di Netflix o di Sky. Erano padri, madri e figli che, nei limiti del possibile, si godevano la vita e gli affetti e, in un’estate normale, facevano gite e andavano in vacanza, anzi, in villeggiatura. Il turismo non era ancora di massa, ma non era già più appannaggio di pochi privilegiati: il sole e i bagni di mare erano considerati

/