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Notte rosa, sembra esplosa, cantava profetico Riccardo Tozzi trent’anni fa. Canzone che a suo tempo sembrava decisamente ermetica, come molti testi del fulvo cantore di Gloria-manchi-tu-nell’aria. Sono ormai vecchia e ancora non ho capito cosa rappresentava il “guerriero di carta igienica” di Ti amo: un fidanzato con problemi di stitichezza? Un amante che vuole buttare nel cesso una storia che va a rotoli? E cosa c’entrava il primo maggio? Oltretutto quella voglia di «abbracciare una donna che stira cantando» mi metteva in allarme. A parte il sogno patriarcale della donna-madre-badante felice di stirare le camicie al suo uomo, tutte le donne che conoscevo, cantanti o meno, se abbracciate durante la delicata quanto defatigante incombenza dello stiro avrebbero reagito malissimo e l’abbracciatore avrebbe dovuto scegliere fra un’ustione di secondo grado e una camicia bruciata, o forse le avrebbe avute tutt’e due. Ma torniamo alla nostra Notte rosa sembra esplosa, che a una prima lettura parla di un tizio che corre di notte dalla donna amata per cercare di recuperare il rapporto, presumibilmente insidiato da un rivale. Dicevamo che a quasi quarant’anni di distanza, il brano tozziano si rivela in tutta la sua pregnanza alla luce di questa imminente Notte rosa post-Covid. Di cose

Ah, le rime. Parola che evoca antichi menestrelli, moderni improvvisatori hip-hop e lontani ricordi scolastici di metrica e prosodia, quando ancora la si studiava. “Schema del sonetto: ABBA ABBA CDE ECD”, si leggeva nell’antologia sotto Tanto gentile e tanto onesta pare. “ABBA ABBA CDC DCD” era lo schema delle rime del foscoliano Alla sera. La rima può essere alternata, incatenata, incrociata, baciata (la più comune, quella delle filastrocche e di “qui comincia l’avventura/del signor Bonaventura”). Questi quattro tipi ci sono bastati dal Duecento a oggi per confezionare secoli di poesia italiana, dagli stilnovisti fino alle canzoni di J-Ax. Ma l’era post-coronavirus ha bisogno di altre strutture poetiche, più consone a un mondo dove il distanziamento sociale è la nuova regola di vita. Le rime baciate, ad esempio, sono un sicuro veicolo di contagio, per non parlare di quelle incrociate. Ce ne vogliono altre, igienizzate e sanificate: signore e signori, verseggiatori e no, ecco a voi le rime buccali. A proporle non è un poeta virologo come Girolamo Fracastoro, il medico padovano del Cinquecento il cui poema epico-sanitario, Syphilis sive de morbo gallico, diede il nome alla malattia venerea più gettonata dell’epoca. E’ il presidente della nostra regione, Stefano Bonaccini, che ha firmato

«Il sorriso degli italiani», questo è la Riviera romagnola nel gradevolissimo spot televisivo con Paolo Cevoli. Uno slogan accattivante ma che non fa giustizia alle nostre spiagge e alla loro fauna. Gli italiani, e i romagnoli nella fattispecie, possono avere bei sorrisi, ma da sole le chiostre dei denti non bastano a riempire una culla dopo nove mesi. Ci vuole anche qualcos’altro, e fra gli anni Sessanta-Settanta i maschi della Riviera ne erano molto generosi, come dimostrano i tanti quaranta-cinquantenni che dai paesi del Nordeuropa scendono qui a cercare le loro radici, dopo aver scoperto da una madre ormai anziana o moribonda il segreto sulla propria nascita: sono frutto di un fugace amore estivo sulle rive dell’Adriatico. L’estate scorsa fece notizia un signore di Marsiglia che voleva trovare il padre sconosciuto, quest’anno abbiamo le due gemelle olandesi concepite nel 1969, la Summer of Love, da una splendida ventenne di nome Truuska con un certo «Italo» (uno degli pseudonimi preferiti dai birri indigeni che post coitum non volevano essere rintracciati. In effetti all’epoca di ragazzi di nome «Italo» ce n’erano pochini). La fanciulla, tornata in patria con un imprevisto souvenir d’Italie, anzi, d’Italò, anzi, due souvenir, visto che si trattava di due gemelline, le

Ho già sviscerato l’argomento mascherina quando era introvabile come il mitico Vello d’oro, altrettanto preziosa ma molto più brutta. All’epoca quello squallido pezzetto di tessuto sanitario, in tutte le sue declinazioni, chirurgica, FFP2, con o senza valvola, era diventato uno status symbol. Chi ne possedeva uno doveva avere come minimo un amico farmacista o essere un accaparratore o complice di accaparratori, e veniva sospettato, invidiato, circuito per carpirgli il segreto: come se l’era procurata? Ne aveva qualcuna di riserva? Vista la penuria, si ovviava con sciarponi e bandane, oppure con mascherine fai-da-te realizzate nei materiali più disparati, dalla carta-forno ai pannetti antipolvere. C’era perfino chi se la dipingeva sulla pelle con il colore del truccabimbi, da lontano l’illusione era perfetta. Quando una farmacia ne riceveva qualcuna, si attivava un passaparola come nemmeno nella Mosca sovietica quando c’era una distribuzione straordinaria di patate. Le chat dei cellulari andavano in ebollizione. Adesso che le mascherine non solo si trovano a prezzi ragionevoli in tutti i negozi e bancarelle, ma grazie alla creatività sono pure diventate un accessorio-moda carino, elegante, abbinabile all’outfit – e, soprattutto, sono ancora obbligatorie nei locali pubblici e ovunque non è possibile mantenere la distanza – nessuno le vuole più portare. Quelli

Non so voi, ma il fatto che Rimini qualche giorno abbia un nuovo esorcista mi rende più tranquilla. Non che il suo predecessore non fosse valido: ho conosciuto personalmente don Silvano Rughi, anche se non in qualità di scaccia-demoni, e ne ricordo non solo l’approccio paterno e cordiale, ma anche una capacità di intuizione fuori dal comune che gli dava una marcia in più per confortare e sostenere chi non era posseduto da uno spirito infernale, ma si trovava sopraffatto da sfighe in grado di rendere la vita un inferno. Ahimé, gli anni passano, e l’unico Esorcista che non invecchia è l’omonimo film di William Friedkin, che a quasi cinquant’anni è ancora nella top-ten degli horror. Don Silvano, invece, ha dovuto lasciare il suo posto di Penitenziere della Cattedrale ed esorcista per motivi di età e di salute, e ora a difendere i riminesi dagli attacchi di Satanasso&Co c’è don Giuseppe Tognacci, classe 1962. Il nostro esorcista 58enne è quindi coetaneo di Bruno Barbieri, di Massimo Giletti e di Alberto Angela, che in un certo senso è un suo collega in campo laico, perché scaccia dalle nostre menti il demone dell’ignoranza a suon di trasmissioni e saggi divulgativi. Il sacerdote condivide l’anno di

Centonove, di cui più della metà nell’ultimo mese: sono le multe ai clienti di prostitute elevate dalla polizia locale da gennaio a oggi. L’ultimo mese non è solo quello in cui i «ghisa» riminesi hanno ricominciato a perseguire la prostituzione di strada, ma anche quello in cui si sono allentate le misure anti-Covid, e i clienti hanno potuto rimettersi in auto per cercare sesso a pagamento senza una borsa della spesa sul sedile posteriore, tanto per poter dire ai poliziotti che stavano andando a consegnare viveri a un parente invalido. Comunque la pensiate sull’argomento, è un segno di ritorno alla normalità, e se qualcuno sperava che il «ne usciremo migliori» significasse che grazie al lockdown gli uomini avrebbero riscoperto le gioie della monogamia e sarebbero diventati tutti casti, puri e fedeli si sbagliava di grosso. Al massimo il confinamento e la presenza ravvicinata di mogli e compagne gli hanno fatto accantonare l’amante fissa – le amanti fisse, lo dice la parola stessa, sono fisse, magari brontolano ma sanno aspettare – oppure li ha spinti a compensare con lo smart-sex o PornHub. Ma appena è scattata la fase 2 sono tornati alle vecchie abitudini. Che, al di là dei moralismi, andrebbero praticate con

C’era un tempo in cui Rimini poteva contare su due voci amiche, a seconda delle stagioni: d’inverno il nautofono, con la sua sirena che nelle notti di nebbia guidava i natanti verso la sicurezza del porto, e d’estate il Publiphono, che con i suoi annunci mobilitava bagnini e bagnanti alla ricerca di bambini sperduti in costumini dai più svariati colori e, negli ultimi anni, anche di nonni disorientati da una passeggiata troppo lunga. A quanto pare la Rimini del Duemila deve accontentarsi di una sola voce rassicurante, perché se lo scorso inverno, dopo anni di silenzio, è stato ripristinato il nautofono, quest’estate scopriamo che è stato zittito il Publiphono. O meglio, l’hanno scoperto due impauriti genitori veneti che, avendo perso di vista il rampollo in spiaggia, si erano rivolti con fiducia al bagnino per sollecitare fatidico appello dall’altoparlante, «E’ stato smarrito un bambino, ecc. ecc.», che dopo Romagna mia è il vero inno della Riviera. Il piccolo è stato ritrovato grazie ai moderni e potenti mezzi che ci rendono tutti rintracciabili sempre e comunque, i cellulari. Ma fa tenerezza che il primo istinto di papà e mamma in vacanza in Romagna sia stato invocare il Publiphono, il buon Grande Fratello che vegliava da

Con l’aria che tira su entrambe le sponde dell’Atlantico, anche Rimini deve fare un esame di coscienza monumentale. Non nel senso delle dimensioni, ma proprio dei monumenti. Quante statue che decorano la nostra città sono intitolate a personaggi che non hanno condiviso i valori morali e civili che caratterizzano la nostra società? Quanti luoghi — strade, piazze, giardini – sono stati dedicati a gente che in qualche occasione ha violato i diritti umani? In America sono nel mirino le statue di Cristoforo Colombo, che non solo era un «cacciaballe» come nell’omonima commedia di Dario Fo ma, lo riconoscono anche gli storici non terzomondisti, anche un crudele razzista. Gli abitanti di Bristol, oggi nota per lo più per l’omonimo cartoncino, si sono accorti dopo più di un secolo di aver dedicato una statua a un tycoon del traffico di schiavi e l’hanno buttata nelle acque del porto, mentre a Londra i monumenti a Winston Churchill sono state impacchettate per proteggerle da chi vede in lui non il vincitore di Hitler ma lo spregiatore di indiani e palestinesi. E a Milano c’è chi contesta l’effigie di Indro Montanelli, che non solo fu fascista, ma che, all’epoca dell’invasione dell’Etiopia, di tutte le usanze locali

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