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Avete presente quel gioco della Settimana enigmistica, «scopri le differenze»? In questi giorni lo stiamo vivendo in versione tridimensionale. Tutto sembra tornato quasi normale, il paesaggio cittadino è quello in cui siamo cresciuti e vissuti, eppure tra un fotogramma di oggi e uno, apparentemente identico, risalente al giugno 2019, ci sono in realtà tante piccole differenze lasciate dal passaggio del coronavirus. In quello odierno vediamo passanti con la mascherina, alcuni anche con i guanti; le persone si tengono a una certa distanza, le strette di mano sono diventate colpetti di gomito; alcuni negozi sullo sfondo sono chiusi, altri sono aperti, ma con i clienti in fila fuori dalla porta, e sulla soglia c’è un dispenser di gel sanitizzante per mani. Piccole differenze tra un’epoca in cui voler mantenere le distanze era un segno di altezzosa asocialità e una in cui, al contrario, denota rispetto per la propria e altrui salute, oltre che per le leggi; virtù civica, insomma. Ma la virtù sta nel mezzo, accuratamente distanziata dai due estremi. Di cui uno è solo fastidioso, l’altro è anche pericoloso. Il primo è rappresentato dal diffidente paranoico, che gira bardato come un palombaro, con gli occhi terrorizzati al di sopra della mascherina con valvola

Avete mai sentito parlare di saturazione semantica? Io non ne sapevo niente fino a un minuto fa, quando ho googlato “ripetizione parola perdita senso”, in cerca di spiegazione del bizzarro fenomeno per cui un vocabolo sentito o pronunciato ripetutamente viene percepito come un accrocchio di suoni e niente più. A quanto pare, il nostro cervello dà significato a una parola solo legandola alle altre, se la si isola ripetendola lui non la capisce più, la sente e basta. A me la saturazione semantica sta succedendo con movida, termine in questi giorni inflazionato sui media: il viavai notturno dei giovani da un locale all’altro è accusato di riaprire le porte al contagio che abbiamo faticosamente tenuto a freno in due mesi e mezzo di quarantena. Non so se l’accusa è fondata; in Lombardia, la regione più colpita dal Covid-19, la bomba virale sono state le case di riposo e i pronto-soccorso, che non mi sembrano esattamente poli di vita mondana. Certo, i ragazzi che ricominciano a uscire la sera non sono i guardiani del distanziamento sociale, ma ho l’impressione che la pandemia abbia scatenato il guastafeste che sonnecchia in tanti, dandogli l’alibi per additare come untore chiunque abbia l’aria di divertirsi più di

Quest’anno il cambio di stagione è particolarmente stressante. Perché a quello degli armadi, già impegnativo di suo, se ne aggiunge un altro, quello del vocabolario. Non si tratta solo di archiviare vestiti pesanti e pensionare per quattro mesi giacconi e cappotti, ma anche di mettere via parole, espressioni, perifrasi, luoghi comuni che tutti abbiamo usato e strausato negli ultimi mesi, e che speriamo di non dover più usare per molto, molto tempo, perché legati a un evento che ha sconvolto le nostre vite e buttato a gambe all’aria tre quarti del pianeta. Ne cito a caso qualcuno, cominciando dal «tampone», che fino allo scorso febbraio indicava un tipo di assorbente interno oppure, per noi madri di famiglia, un banale esame batteriologico cui sottoponevamo i bambini con la tonsillite (i miei figli ne hanno fatti a decine). Adesso, anche quando non ne mai abbiamo avuto uno in gola, ci esce comunque dal naso e dalle orecchie, a forza di sentirlo citare, invocare, positivo, negativo, doppio o triplo, accessibile o fantasma, singolare o plurale, migliaia, centinaia di milioni di tamponi. E la parola «asintomatico»? Un concetto altamente destabilizzante: mi sento bene ma potrei essere malato, anzi, senza saperlo potrei aver contagiato decine di persone.

«Qualcuno vuole dire qualche parola?» Nei funerali dei film è sempre una scena bellissima, la più commovente e significativa. All’appello del sacerdote rispondono almeno in tre o in quattro, si mettono dietro alla bara e pronunciano senza impappinarsi una breve commemorazione, impreziosita da un ricordo del defunto, da una citazione piena di significato o da una battuta dolceamara che suscita negli astanti risate e lacrime. Tutto fila così liscio che viene da pensare che sia una cosa facile, naturale. Poi quando è il copione della tua vita a metterti in una scena come quella, e avresti l’opportunità di «dire qualche parola» su una persona cara che ti ha lasciato, ti ritrovi la lingua incollata al palato e riesci ad aprire la bocca solo per singhiozzare. E ti senti ancora peggio perché senti che dovresti farlo, che ne avresti bisogno, e forse anche gli altri avrebbero bisogno di ascoltarti, per condividere il tuo rimpianto e il ricordo di chi non c’è più. E invece niente. A me è successo ieri, e poco vale ripetere a me stessa che già sono stata fortunata a poter dare un ultimo saluto a un amico carissimo, quando fino a pochi giorni fa sarebbe stato impossibile. Ma siccome questa

C’è qualcosa, nella gioia per la liberazione di Silvia Romano, che va al di là del comprensibile sollievo per la fine di un incubo durato un anno e mezzo. Incubo per la nostra connazionale, per la sua famiglia e i suoi amici, e per tutti gli italiani (molti, per fortuna) che non credono che farsi gli affari propri sia la migliore e più sicura regola di vita. Ricorderete certi inqualificabili rutti cartacei emessi dai soliti opinionisti cattivisti all’epoca del sequestro (se l’è andata a cercare, se voleva fare del bene non c’era bisogno di andare in Africa, le piacevano i negretti e via farneticando), per non parlare delle solite porcherie di cui si chiazzano i social ogni volta che succede qualcosa a un cooperante, cioè a qualcuno che va realmente ad aiutare a casa loro quelli di cui i sovranisti dicono “aiutiamoli a casa loro”. Se poi si tratta di una cooperante, il livello precipita a tre metri sotto il letamaio. Chissà se la pandemia da cui stiamo lentamente uscendo ha insegnato qualcosa a queste teste e cuori bacati, soprattutto a quelli residenti nella regione di Silvia, Lombardia, quella più colpita dal coronavirus, e che si sono visti soccorrere, in questi

Il 18 maggio, data ufficiale per la riapertura delle nostre spiagge, si assisterà a un fenomeno mai visto negli ultimi cinquant’anni: riminesi fuori forma e bianchi come mozzarelle a maggio inoltrato. Per questo motivo, e non per mantenere il distanziamento, saranno in pochi ad accorrere sulla battigia: vedersi gambe e torace ancora color quarantena e per di più mollicce nello scenario che di solito li vede già tonicissimi e color cuoio già a inizio stagione potrebbe essere uno choc. In epoca pre-coronavirus l’indigeno, e soprattutto l’intrepida indigena, esibivano in maggio il risultato di bagno di sole iniziati già a fine gennaio, e se il clima non aiutava c’erano sempre le docce solari nell’istituto di bellezza. Quanto alla prova costume, da noi si fa abitualmente subito dopo l’Epifania. Ma nell’anno del lockdown, con palestre e centri estetici off-limits da mesi e cucine casalinghe trasformate in panifici-pasticcerie attivi h24, è stato praticamente impossibile provvedersi di fisico da spiaggia in tempo utile, se non si voleva essere braccati da un drone, tipo Cary Grant nella famosa sequenza di Intrigo internazionale. Così quando ci ripresenteremo fra gli sparuti ombrelloni superstiti saremo più pallidi e imperfetti che mai, con i peli incarniti causa cerette artigianali fatte

Si dice che per ripartire dopo la batosta del coronavirus ci vorrà la stessa grinta e lo stesso spirito di sacrificio che, insieme ai soldi del piano Marshall, ha sorretto gli italiani alle prese con un’Italia tutta da ricostruire. Grinta e spirito di sacrificio che i nostri vecchi avevano in abbondanza, quei nonni diventati rari e preziosi come quadri di Van Gogh e che come tali quest’estate andranno protetti e custoditi. Anche perché quei matti, in un’epoca che ricorda la loro eroica gioventù, potrebbero declinare la ripartenza in modo molto personale, e ripartire pure loro, per dare il buon esempio alla nostra generazione mollacciona. Se i vecchi leggono sul giornale che, nella perdurante «vacatio legis» riguardo alla riapertura degli hotel, tornano prepotentemente di moda le case di vacanza e gli appartamenti in affitto, capaci che fanno le valigie e si dispongono a trasferirsi in garage da giugno a settembre, per lasciare libero l’alloggio ai «bagnanti», come si chiamavano ai loro tempi. Sorprendendosi se noi non li imitiamo: e che saranno mai, quattro mesi accampati in giardino? Loro lo hanno fatto per anni, anche se avevano un altro lavoro. Ai villeggianti vendevano pure le verdure del loro orto e le pesche del

Ma chi lo dice che di mamma ce n’è una sola, o che la madre è sempre certa? A ben vedere ognuno di noi ne ha almeno quattro o cinque. Oltre alla madre biologica abbiamo una madre lingua e una madre patria, e nella nostra scatola cranica abbiamo una pia madre e una dura madre, le due membrane che avvolgono il cervello. Molti di noi hanno aggiunto all’elenco un’altra madre, o l’hanno scoperta grazie alla clausura forzata che ci sta tenendo lontani dalle nostre mamme reali e ci spinge a cercare surrogati. In verità è una mamma un po’ transgender, nel senso che è madre pur essendo di genere maschile, con buona pace di Adinolfi, Pillon e compagnia teocon. Parliamo del lievito madre, una vera e propria sfida alla logica e alla bioetica, perché è una madre che in realtà viene generata dai suoi figli mediante una specie di fecondazione assistita che prevede farina, acqua, un po’ di zucchero e l’intervento di potenze invisibili che risiedono nell’aria. Ormai ci hanno provato tutti, in questi giorni, a realizzare in casa il lievito madre, anche perché al supermercato i lieviti risultano più introvabili di mascherine e amuchine. Sorvegliando per giorni la ciotola coperta e

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