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Dovremmo odiarlo, disprezzarlo, inveire contro di lui, metterlo alla gogna, additarlo al pubblico ludibrio. E invece, accidenti, l’ingegnere bolognese denunciato otto volte per violazione delle restrizioni anti-pandemia non riesce a non starci diabolicamente simpatico. Anche se a quest’ora le otto denunce saranno diventate una dozzina e domani, con la gita di Pasquetta, magari raddoppiate. Anche se noi non potremmo permetterci di spendere migliaia di euro in multe, come lui intende fare: alle forze dell’ordine ha detto chiaro e tondo che pagare per potersi sentire un uomo libero e andare dove gli pare, alla faccia delle norme gli sembra il modo migliore per investire il suo denaro. Sta finanziando la sua personalissima battaglia ideale. E gli si può dare torto, in fondo, visto che le sue gite sono sempre in solitaria e non prevedono pericolosi contatti ravvicinati con i suoi simili – eccettuati, beninteso, i militi della Benemerita che l’hanno ripetutamente pizzicato? Come Dante «libertà va cercando ch’è si cara», carissima in questi giorni, dai quattrocento euro in su. Via, siamo tutti cresciuti nel culto della libertà, sentendoci ripetere fin dai banchi di scuola che per lei vale la pena sacrificare qualunque cosa, vita compresa. Ai caduti per la libertà sono dedicateSarà anche

Ferrera Erbognone in Lombardia, il Bellunese e la zona del delta padano, alcune valli piemontesi, Nemi nel Lazio e le zone interne della Sardegna: lembi d’Italia in cui, per motivi ora al vaglio degli studiosi, il Covid-19 non è ancora riuscito a fare breccia, e si spera che non la faccia mai. Per ora è difficile stabilire se dietro questa immunità ci siano fattori genetici, geografici o puro e semplice fattore C. Gli abitanti di alcune zone montane avranno finalmente trovato qualche lato positivo nell’isolamento che per secoli ha regalato loro solo gozzo e tare dovute all’endogamia. E si sospetta che a proteggere i rovigotti e i ferraresi dagli attacchi del coronavirus sia proprio la millenaria convivenza con talassemia e malaria, che avrebbero rafforzato il sistema immunitario degli indigeni fino a conferire loro una specie di invulnerabilità. Il caso di Ferrera Erbognone è un vero e proprio enigma, visto che non si tratta di un borgo isolato e molti degli abitanti lavorano in una vicina raffineria dove erano possibili contatti con persone provenienti da zone più colpite, e per ora la sua incolumità sembra più frutto di un colpo di fortuna che di cause scientificamente accertabili. Ma c’è un altro paesino,

Tutti noi siamo affezionati alla nostra Rimini, ma ci volevano questi giorni così difficili per volerle ancora più bene. Per innamorarsi di nuovo di lei, come di una compagna con cui viviamo da sempre ma che ancora non si era svelata del tutto, per timidezza o forse per un pudore insospettabile sotto la sua maschera cordiale, pratica e a volte un po’ cinica. Come non amarla, così forte e al tempo stesso così indifesa, mentre lotta come una leonessa contro un nemico invisibile e silenzioso? Come non sentirsi riempire il cuore di tenerezza vedendo le sue strade vuote, attraversando le piazze deserte dove ormai si è persa anche l’eco dell’ultima passeggiata domenicale in compagnia? La città è come una bella addormentata che non si sveglierà con un bacio, ma grazie ai buoni comportamenti e al senso di responsabilità della sua cittadinanza. Cioè noi tutti, adulti e bambini, e perfino i cani, che da settimane stiamo lottando come un solo principe per spezzare l’incantesimo. Restando in casa il più possibile, limitando al massimo il raggio delle passeggiate e i giri per gli acquisti, rispettando le file all’entrata del supermercato. Soprattutto, rinunciando a quello che ci rende più riminesi, il piacere della socialità semplice, alla

«Maschere nude» erano quelle del teatro di Pirandello. «Mascherine nude» sono quelle che coprendo i nostri visi svelano cosa ciò che proviamo: paura del contagio, sì, ma anche rispetto per noi stessi e per il prossimo, solidarietà con l’angoscia di una città, di un Paese. Ormai se ne vedono di ogni genere, dagli scafandri inespugnabili da cantiere edile, ai gusci di cartone che usavano le casalinghe allergiche alla polvere, da quelle con la valvola e doppio filtro ai rettangolini pieghettati azzurri che ormai costano come una borsetta di Prada. E poi ci sono le mascherine autoprodotte, come quelle che porto io, che dall’inizio dell’emergenza non ho trovato una farmacia senza il cartello «mascherine esaurite». Per ora uso la carta forno o il pannetto antipolvere, ma ho visto un tutorial di un medico francese che insegna a realizzarle anche con i normali tovaglioli di carta e assicura che fanno il loro mestiere – cioè impedire di spandere goccioline pericolose. Due elastici, due graffette e voilà, ecco pronta una mascherina in parte riciclabile (si butta la carta e si tengono gli elastici) e personalizzabile a piacere. Ho visto chi ci disegna una bocca sexy, o un sorriso, completato dal fumetto “andrà tutto

Com’è che fra tutti i video di quarantenati canterini al balcone che girano rete non ce n’è nessuno di Rimini? A Milano c’è Ricky Gianco che intona Pugni chiusi sul terrazzo, ad Agrigento un coro polifonico di condominio esegue Ciuri Ciuri, a Napoli vanno di neomelodico, a Torino si è esibita una cantante d’opera, a Siena i casigliani di un vicolo hanno intonato l’inno cittadino, il Canto della Verbena, per non parlare del singing flashmob con Fratelli d’Italia. Tutto filmato, postato, ripreso da Bbc, Independent, New York Times, e chi più ne ha più ne metta, con parole di lode e ammirazione per il «brave Italian people». E noi riminesi? Aspettiamo l'iniziativa di Matteo Munaretto per salutare la primavera il 21 marzo. Ma per ora non abbiamo dato nessun contributo a questa iniziativa spontanea che, per quanto fragile e improvvisata, sta riportando l’Italia nel cuore degli stranieri e riscattando agli occhi del mondo i tanto bistrattati italiani, noti tanto per l’allegria e la giovialità quanto per una presunta incapacità di sdrammatizzare i momenti difficili. Voglio dire, la voce l’abbiamo, finestre e balconi pure, alcuni magari hanno pure vicini di casa intonati per fare il controcanto. Perché non ci siamo buttati? (Non dalle

Cent’anni fa le osterie erano luoghi di vizio e peccato e preti e mogli cercavano di tenerne lontani i giovani e i padri di famiglia. Alcool, gioco, ozio, bestemmie e pure «idee sovversive» erano i mali che albergavano all’osteria e corrompevano la salute del corpo e dell’anima. Oggi quei demoni non fanno più paura a nessuno. Anzi, fino a ieri sera le mogli erano ben felici di togliersi dai piedi i mariti per qualche ora e pure i preti ce l’avevano più con i social network che con i posti dove si socializza sul serio, pazienza se ci scappa qualche santissimo. Ci voleva il coronavirus per restituire a bar e osterie l’aura malefica dei tempi che furono. A quanto sembra, è fra un giro di carte e l’irrinunciabile bianchino con gli amici che tanti anziani della nostra zona hanno contratto il morbo. Il colpo per la vita quotidiana e il buonumore dei nonni è durissimo, e pure per la tranquillità delle nonne: un marito anziano costretto a restare in casa per motivi che non è del tutto in grado di capire e di cui in cuor suo dubita, è una mina vagante e brontolante che può rendere la convivenza più mortale del

Sarà mica vera la storia dell’«anno bisesto anno funesto»? Anche i meno superstiziosi cominciano ad avere dei dubbi. Partito (così sembra) da un paio di pipistrelli cinesi, il coronavirus sta provocando un cataclisma planetario dagli effetti imprevedibili come natura e soprattutto come durata. E a quanto pare nessun governo sa che pesci e che provette pigliare, anche se le nostre autorità centrali e locali, essendo state le prime a rivelare loro malgrado in mondovisione la loro impreparazione, hanno fatto sì che nei giorni scorsi l’Italia venisse additata come paese-untore in preda alla psicosi. Ora anche la Germania e la Svizzera hanno i loro focolai domestici e anche lì c’è l’assalto ai supermercati e l’accaparramento di mascherine e disinfettanti, si capisce che il vecchio gioco dello scaricabacillo dei tempi della sifilide («mal francese» per gli italiani, «male napoletano» per i francesi, «male polacco» per i russi, «male cristiano» per gli arabi e così via) adesso non funziona più. Il coronavirus non fa differenze fra gli esseri umani, non bada all’etnia, al genere, all’orientamento sessuale e al censo. Non è il solito familista: può colpire uno o due membri di uno stesso nucleo familiare, non necessariamente i più anziani o i più deboli, e

  Radio Maria dice che l’Apocalisse è cominciata. E il trailer, o il teaser, come si dice oggi, è il coronavirus, un flagello veramente beffardo, che ti dà un sacco di complicazioni anche se non ti colpisce. Anzi, forse te ne dà di più, perché se ti ammali, ammesso che tu riesca a distinguerla da un’influenza normale e non te ne vada in giro a contagiare gente a destra e a manca, come pare abbia fatto l’ignaro «untore» di Codogno, ti mettono in isolamento e non devi più pensare a niente finché guarisci, come fortunatamente succede nel 97,5 per cento dei casi (dato, va precisato, ancora incerto, e comunque superiore alla mortalità dell’influenza stagionale). Se non ti ammali, ti restano le complicazioni: ansia, specie per i tuoi familiari a rischio; paranoia igienista; fobia ingiustificata per le persone con tratti asiatici o, peggio ancora, irritazione causata dalla fobia altrui per le persone con tratti asiatici; cancellazione fino a nuovo ordine di eventi sociali e sportivi e gite scolastiche che prevedono contatti con zone di contagio, cioè, come sembra, praticamente tutta l’Italia settentrionale; rischio di ritrovarsi su un treno bloccato causa presunto coronavirus a bordo, com’è successo ieri sera ai malcapitati passeggeri di un Roma-Lecce

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