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Sono così vecchia che quando ero piccola io il cioccolato faceva male. Anzi, forse era la cosa che a noi bambini, secondo le mamme e i dottori, faceva più male in assoluto. Anche più delle caramelle, che avevano l’attenuante di contenere qualche atomo di frutta. Era accusato di provocare una vasta gamma di disturbi, fra cui bruciori, eczemi, allergie, diarrea, stitichezza e mal di pancia assortiti. C’era un solo modo per redimerlo: mescolarlo con il latte, l’alimento salutare per eccellenza, tanto bianco e innocente quanto il cioccolato è scuro e poco raccomandabile. Quindi vai di cioccolato al latte, meglio ancora se cioccolato bianco, oppure le barrette “più latte meno cacao”, cioè un sottile rivestimento marroncino intorno a un ripieno biancastro. Come se il problema del cacao fosse soprattutto la nuance di colore, come fra gli schiavi afroamericani del vecchio Sud, che più erano chiari (quindi mescolati con i bianchi) più valevano sul mercato. Il cioccolato fondente, duro, amaro, era un gusto adulto, appena un po’ meno peccaminoso dell’alcool. Sembra incredibile a pensarci adesso che il «cibo degli dei» (così lo chiamavano gli aztechi) è considerato da un lato una specie di elisir di lunga vita, quasi un integratore alimentare, dall’altro un antidepressivo

I ricchi possono dormire tranquilli. In Paradiso ci entreranno senza problemi, anzi, probabilmente san Pietro ha già parecchie difficoltà a smistare la ressa di miliardari che premono ai cancelli. Dicevano le Scritture che è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco acceda al regno dei cieli – ma che possiamo sapere noi dell’effettiva difficoltà che incontra il cammello nel transitare attraverso la cruna? Non so voi ma io credo di non aver mai visto un cammello dal vivo in tutta la mia vita, e anche se dovesse essermi successo probabilmente non avrei avuto sottomano l’ago per fare la prova. Ma qui a Rimini assisto tutti i giorni a una prova estrema, rispetto alla quale il passaggio della cruna è una bazzecola: il passaggio del tir nella stradina del centro storico. Le proporzioni sono più o meno le stesse, abbiamo un gigantesco oggetto semovente che ha deciso di intrufolare la sua mole cospicua in altezza e in larghezza in un pertugio ridicolmente stretto, ostruendolo quasi completamente. La differenza è che almeno il cammello, all’uscita della cruna, non deve curvare per infilarsi in un’altra cruna, mentre il Tir deve o dovrebbe piegarsi come un contorsionista per

San Gaudenzo, vescovo, martire e patrono di Rimini che si festeggia domani, ha questa interessante e significativa caratteristica: non fu giustiziato dai soliti paganacci romani perché si rifiutava di adorare gli dei falsi e bugiardi, ma venne trucidato da altri cristiani, ancorché eretici, il 14 ottobre del 360 d. C. In quel periodo era in corso una specie di sanguinoso derby fra correligionari, divisi fra ortodossi e ariani, gli uni convinti che Dio e Gesù fossero consustanziali, gli altri che il Figlio fosse di natura divina ma inferiore a quella del Padre. Ci si sbudellava, in senso letterale, per (a noi) incomprensibili sottigliezze teologiche, con una ferocia che doveva lasciare esterrefatti i pochi pagani non ancora massacrati o convertiti a forza. L’arianesimo era preponderante in Oriente, e Rimini, affacciata sull’Adriatico, era un vero e proprio ricettacolo di eretici: Gaudenzo, ortodosso ma orientale in quanto nativo Efeso, era stato inviato a Rimini da papa Silvestro, custode dell’ortodossia, proprio per sgominarli, un po’ come lo sceriffo tosto inviato nella città del Far West dove i banditi dettano legge. Sfortunatamente, gli ariani furono più veloci: un giorno di ottobre gli saltarono addosso, lo ammazzarono a sassate e bastonate e gettarono il corpo in uno stagno. Pare

“L’Oriente è l’Oriente, e l’Occidente è l’Occidente, e non si incontreranno mai, finché per il cielo e la terra non arriverà il giorno del giudizio”, diceva Kipling. Ci sono differenze incolmabili, frontiere invalicabili, posizioni diametralmente opposte impossibili da conciliare. E posizioni è il termine più giusto quando si parla di sesso, o meglio dei diversi atteggiamenti che Oriente e Occidente hanno rispetto a quel che si fa nell’intimità. Per noi, che dai tempi di Pitagora scindiamo anima e carne e teorizziamo che quel che fa male all’uno fa bene all’altra e viceversa, il sesso è solo questione di corpo, anzi, meno c’entra lo spirito più è divertente, e siccome il corpo è meno nobile dello spirito, il sesso è un’attività più o meno disdicevole, riscattata solo dalla funzione riproduttivo-salutistica. Per la cultura asiatica, con diverse sfumature, l’attività sessuale, nell’armonia di yin e yang, purifica ed eleva lo spirito e moltiplica l’energia psicofisica. Ma c’è un ma: per beneficiare al massimo degli effetti tonificanti dell’amore il maschio deve ritardare il più possibile l’orgasmo. Se poi lo evita proprio, è il top. E’ il famoso sesso tantrico praticato, si dice, da Sting, anche se i leggendari coiti di quattro ore pare fossero una leggenda

Troppo giovane, esibizionista, manovrata dagli adulti, malvestita, debole di mente, seguita solo per moda, dovrebbe trovarsi un fidanzato ma è troppo bruttina, e si sfoga sostenendo cause più grandi di lei. Oppure eroica, innocente, spirito fortissimo racchiuso in un corpo piccolo e fragile, lingua pura attraverso cui parla la verità, e che riesce a farsi ascoltare dai potenti. Stiamo parlando di Greta Thunberg e delle reazioni e dei sentimenti contrapposti che suscita? Sì e no. Sì, perché tutte le cose di cui sopra sono state dette anche di Greta Thunberg, no, perché quel doppio corredo di critiche e sospetti da un lato, di lodi e ammirazione dall’altro, è stato inaugurato quasi ottocento anni fa, con un’altra ragazzina straordinaria e divisiva, non svedese ma francese, di nome Giovanna d’Arco, poi canonizzata. Aveva sedici anni, la pulzella di Orléans, quando intraprese la missione di rianimare e incoraggiare l’esercito francese contro gli inglesi che occupavano la sua terra. Vestì elmo e corazza, impugnò la spada e combatté in prima linea trascinando i suoi compatrioti contro gli invasori; ma dal suo esercito pretendeva un comportamento ineccepibile, niente saccheggi, niente stupri, ma preghiere e digiuni prima di ogni battaglia. Una vera rompiscatole, che rimproverava agli adulti la loro

E ieri erano 75. Settantacinque anni dalla liberazione di Rimini, al termine di una battaglia che, com’è stato ricordato l’altro ieri al Museo della città dallo storico Andrea Santangelo, è stata una delle più furibonde, determinanti e, per certi versi, misconosciute, della Seconda guerra mondiale. «Liberazione» è un termine parziale e per certi versi ingannevole: il 22 settembre 1944 la penisola era ancora spezzata in due e tutta l’Italia settentrionale era sotto il tallone tedesco. Dopo settantacinque anni di pace e di unità nazionale è difficile pensare a una liberazione che divideva una città dall’altra, a fiumiciattoli che diventavano confini fatali, a colline oggi note tutt’al più per una certa trattoria dove fanno bene le tagliatelle e ieri contese a suon di cannonate. Liberazione dai bombardamenti dal cielo, sì, ma non dalle bombe di tutti i tipi seminate nel terreno, che hanno mietuto vittime fino al dopoguerra inoltrato. Liberazione dai rastrellamenti tedeschi ma non dalla fame e dal razionamento. Liberazione dal conflitto ma non dalle sue ferite, interiori ed esteriori, che sono guarite solo dopo molti anni. Una popolazione di spettri emaciati, l’80 per cento degli edifici distrutti, rovine a perdita d’occhio da piazza Tre Martiri fino al mare, i ricordi freschi della

Ma lo pensa anche stamattina, Sgarbi, che Andrea Gnassi sarebbe un perfetto ministro del Turismo, se non addirittura premier? Perché magari il discusso e intemperante critico d’arte potrebbe soffre della stessa sindrome del riccone del film di Chaplin, che la sera da sbronzo è buono e generoso, e la mattina, da sobrio, ridiventa sprezzante e superbo. Non che il nostro sindaco non meriti le lodi, il problema è l’umoralità di Sgarbi, che pur essendo una persona competente e, probabilmente, fra le più attendibili quando si tratta di valutare le capacità di un potenziale ministro del Turismo, per il grande pubblico è soprattutto un provocatore spudorato. E il suo aperto endorsement a Gnassi, espresso l’altra sera nel corso di una cena alla Vecchia Pescheria, è un’arma a doppio taglio: consacrazione o bordata fatale? Diceva sul serio, e cioè che il nostro primo cittadino potrebbe allargare all’Italia tutta le politiche di rilancio e valorizzazione turistica che ha applicato a Rimini, o intendeva l’esatto contrario, ossia che Gnassi sarebbe il degno ministro del Turismo per quest’Italia “maculata di lardura”, come sbraitava il professor Marcellini interpretato dall’arboriano Bracardi? Intendiamoci, anche senza essere lecchini, pare avere più senso la prima ipotesi, e in effetti è da un po’

Nessun latinista è mai riuscito finora a rendere fino in fondo il senso del verso virgiliano «Sunt lacrimae rerum, et mentem mortalia tangunt». Lo pronuncia Enea guardando i bassorilievi del tempio di Giunone a Cartagine, che raffigurano la guerra di Troia. Ma cosa sono veramente sono le «lacrime delle cose»? Le tragedie che si nascondono nella vita di ogni giorno, o le emozioni struggenti che proiettiamo sugli oggetti, o il dolore come motore della storia? Forse per capirlo non bisogna fare appello alle nostre conoscenze di filologia latina e ascoltare il cuore, che sa benissimo a cosa si riferiva Virgilio. E quando vediamo il manifestino funebre che l’anziano Giorgio Parmeggiani ha fatto affiggere in città per commemorare il primo anniversario della morte non di un congiunto, ma della Cassa di Risparmio di Rimini, la banca in cui hanno lavorato lui e suo padre prima di lui, è il cuore, a dirci: eccole, le lacrime delle cose. Si può esercitare la pietas anche verso un istituto di credito che non c’è più, e la cui fine, anche se non ha comportato lo sterminio e l’incendio toccati alla sventurata città natale di Enea, continua ad amareggiare chi gli ha dedicato la vita. Come il signor

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