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La famosa canzoncina inglese, che ha dato il nome a un altrettanto famoso giallo di Agatha Christie, parla di tre topolini ciechi inseguiti dalla moglie del contadino armata di coltello. Questo forse spiega l’interesse suscitato oltre Manica dall’incredibile invasione di topi a Cesena, per la precisione nella frazione di Gattolino – la realtà che oggi ci propina tante tragedie ogni tanto si rilassa e ci regala un filo di tenero umorismo da libro per bambini – e finita addirittura sul Guardian. Del resto cosa c’è di più tenero di un topolino bianco, ben diverso dalle pantegane grigie e unte che sgusciano dai pertugi di immobili degradati (tipo quello di fronte a casa mia, di cui ho riferito qualche mese fa). Ma la tenerezza ispirata dai topolini bianchi è inversamente proporzionale al loro numero. Se vedi un topolino bianco dici «ma che amore», già con due topolini sei meno entusiasta, con dieci sei salito sulla sedia, dai venti in su hai la faccia dell’antiquario Kazanian nella famosa scena di Inferno di Dario Argento. E in effetti le immagini di topi spiaccicati sull’asfalto illuminati dai fari delle auto sono da film horror, e ci si chiede, con un brivido nella schiena, cosa deve provare

Ormai siamo abituati a prenotare tutto, dall’hotel delle vacanze ai biglietti per i concerti passando per il tavolo al ristorante e i libri scolastici. Prenotiamo anche cose meno gradevoli, come le visite e gli esami diagnostici. Quel che proprio non riusciamo a prenotare è l’alloggio dove riposeremo al termine dell’unico viaggio che nessuno di noi potrà mai disdire. E siccome, in un’epoca di invecchiamento della popolazione, i posti in questo particolare settore dell’ospitalità vanno via come il pane, si creano situazioni come quella in corso a Pennabilli, dove nei cimiteri non si trova quasi più un posto libero. Dalla pagina Facebook del comune il sindaco continua a invitare i cittadini a farsi vivi (finché possono) per «fermare» i pochi posti-bara rimasti o chiederne di nuovi, in modo da creare una domanda sufficiente da giustificare la costruzione di nuovi loculi. Ma, a quanto pare, l’appello cade nel vuoto. Nessuno ha voglia di predisporre da vivo la sua ultima sistemazione, per assicurarsi di poter dormire il sonno eterno vicino ai membri defunti della sua famiglia, e anche di non complicare troppo la vita ai membri viventi. Che, quando il triste momento arriverà, il più tardi possibile, dovranno asciugarsi in fretta le lacrime e affannarsi a trovare

Non ho mai rubato niente in un negozio, nemmeno da ragazzina quando i soldi in tasca erano pochi. Non so se c’entrava più l’etica o la paura, anzi, la certezza che la mia goffaggine mi avrebbe tradita e sarei stata beccata (anche a scuola, del resto, ero pessima sia come copiona che come passatrice di bigliettini). Ricordo il mio stupore quando un’amica, all’uscita dal grande magazzino in cui avevamo fatto un giro, tirò fuori di tasca un rossetto. «L’ho rubato» mi disse tranquillamente, come se ci fosse abituata, la piccola bravata del sabato pomeriggio per una ragazza che non aveva certamente problemi di soldi – forse di mancanza d’affetto o di attenzione. (Le mie ex compagne del liceo Giulio Cesare sono estranee ai fatti: l’episodio è successo quando ancora non abitavo a Rimini.) E così quando leggo notizie su donne più o meno giovani pizzicate alle Befane con merce rubata addosso – è successo pochi giorni fa a due ragazze - mi faccio delle domande. Era la prima volta o sono habituées del taccheggio? Hanno avuto un raptus oppure avevano pianificato il blitz? E vale la pena farlo in tempo di saldi, quando la roba costa poco? Conveniva di più osare quando era

Dobbiamo stare attenti non lasciare in giro cappotti, piumini e sciarpe – anche in questi giorni di grande freddo può succedere, magari ci stiamo provando qualcosa vicino a una bancarella del mercato, o vogliamo risistemarci il maglione. I nostri indumenti potrebbero essere intercettati da qualche leghista in trasferta che li scambia per quelli di un barbone e li getta nel primo cassonetto. E, non contento, li immortala su Facebook in mezzo ai sacchetti del pattume indifferenziato, gloriandosi della sua bella impresa e sottolineando di essersi lavato le mani dopo l’atto. Insomma, fa quello che ha fatto Paolo Polidori, vicesindaco salviniano di Trieste, spaccando l’opinione pubblica: chi ha applaudito il raid in nome del decoro urbano lordato dai vagabondi, segnatamente stranieri, chi ha solidarizzato con il povero clochard che nei giorni più gelidi dell’anno, e una città non certo nota per il clima mite, non ha più ritrovato i panni con cui si ricopriva di notte. Al di là della mancanza di pietà umana, quel che mi ha più impressionato è la gioia gongolante con cui Polidori resocontava l’operazione e la «soddisfazione» (sic) che ha provato nel buttare quegli stracci nella spazzatura, alla faccia dei benpensanti. Certo, per lui sarebbe stato più appagante poter

Quando stiamo per imbarcarci in un nuovo anno ci vorrebbero dei controlli accurati come quelli cui ci sottoponiamo prima di salire su un aereo. L’ideale sarebbe un detector collocato allo spirare del 2018 che ci scannerizza dentro e fuori evidenziando quanto di brutto, dannoso o semplicemente inutile ci portiamo addosso, e che rischia di appesantirci nei prossimi 365 giorni, se non di rovinare la vita a noi e ai nostri simili: ricordi dolorosi che non ci hanno insegnato nulla ma ci hanno solo riempito di rancore, trappole mentali, cattive abitudini, pregiudizi di ogni tipo. Via, buttiamo tutto in appositi bidoni, senza rimpianti – no, anzi, già che ci siamo buttiamoci anche i rimpianti, che non servono a nulla e occupano solo posto. L’operazione potrebbe richiedere più tempo del previsto, quindi meglio non aspettare le ultime ore di domani e cominciare già oggi. Se poi ci fossero un paio di addetti per sorvegliare che tutto avvenga secondo le regole e che non tentiamo di fare i furbi, sarebbe perfetto: «Non importa se questi vecchi preconcetti lei li ha ereditati da suo padre e da suo nonno, o risalgono addirittura al Medioevo hanno un grande valore antiquario. Se le piacciono tanto, se li tenga pure

Ora sì che possiamo chiamare il Sigismondo d’Oro il premio Oscar dei riminesi. Non per il red carpet (ormai il tappeto rosso ce l’hanno anche le prime comunioni), e nemmeno per i pettegolezzi sui ritocchini dei divi – anche perché nel caso del Sigismondo è più divo colui che il premio lo consegna, cioè il sindaco Gnassi, che chi lo riceve. A equiparare il più ambito riconoscimento cittadino alla statuetta più famosa dell’universo è stato il gesto di Eron, l’ultimo riminese insignito del Sigismondo d’Oro l’altra sera, insieme a Elio Tosi patron dell’Embassy. Il celebre writer non è salito di persona sul palco a ritirare il premio, ma ha inviato al posto suo un amico di fiducia, il venditore ambulante Mamadouk. Un po’ come fece Marlon Brando nel 1973: premiato con l’Oscar come miglior attore per Il Padrino, lo rifiutò per protesta e inviò in sua vece alla cerimonia Sacheen Littlefeather, una giovane attrice di etnia Apache, presidente di un comitato per la difesa dei nativi americani. Davanti a 85 milioni di telespettatori, la giovane tentò di pronunciare un discorso in cui, anche a nome di Brando, si accusava Hollywood di aver sempre descritto i «pellerossa» come «selvaggi, ostili, simbolo del male. Quando

Dove poteva essere il super-club per scambisti più gettonato d’Italia rimbalzato dalle pagine del Carlino direttamente sul piccantissimo Dagospia? Dalle nostre parti, ovviamente – e pare strano che non sia stato inserito nel programma del Capodanno più lungo del mondo, visto che, neve permettendo, per le prossime feste si prevedono vere e proprie code di coppie decise a fondere Natale e Pasqua: presentarsi a un’orgia con il/la coniuge è il connubio perfetto fra il «con i tuoi» e il «con chi vuoi». Certo, un’ammucchiata in una villa per scambisti a Saludecio non è proprio qualcosa di cui si può parlare tranquillamente in famiglia, quando i parenti ti chiedono dove passerai l’ultimo dell’anno. Puoi rispondere genericamente «mah, faccio un giro a Rimini», in modo da far pensare a trenini brasiliani senza doppi sensi in qualche discoteca, o al concerto del buon Nek sul lungomare, dove, visto il freddo, la tentazione più hot è un casto vin brulé. Oppure dire con aria sfiduciata «ah guarda, quest’anno a san Silvestro vado a letto alle nove», che poi in un certo senso non sarebbe nemmeno una bugia, ma poi c’è il rischio che qualche familiare impietosito dalla tua clausura venga a bussare a casa con

Non chiedere dov’è la discoteca della tragedia: se hai figli adolescenti è come se fosse successo qui vicino e anche i tuoi ragazzi venerdì sera avessero rischiato la vita, anche se in realtà stavano a decine di chilometri di distanza, in un posto più sicuro. O meglio: in quello che sembra un posto sicuro finché non succede quello che è successo alla Lanterna Azzurra di Corinaldo. E si scopre che il locale dove tanti giovani passano le sere e le notti di festa non è sicuro per niente: si fanno entrare molte più persone di quanto sarebbe consentito, le strutture non reggono, i controlli sono insufficienti. E basta un attimo di follia o un brutto scherzo a innescare il panico e a trasformare il locale in una trappola mortale – per i ragazzi, e anche per i papà o le mamme che li accompagnano, pensando che la loro presenza, come un talismano, basti a non far succedere nulla di male. Perché il male, per noi, sono le cattive compagnie, la droga, i molestatori, l’alcool sottobanco, la musica che ti spappola timpani e cervello, l’amico grande ma non tanto fidato che riporta a casa in macchina all’alba la compagnia dei minorenni e si

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