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Una Cenerentola rimasta nell’angolo, lacera e negletta, sta dando gli ultimi tocchi alla sua toilette in vista della sua serata di gala. Fra venti giorni, il suo principe azzurro, la Musica, la prenderà fra le sue braccia per riprendere il ballo interrotto dalle bombe settantacinque anni fa, e farla danzare fino a mezzanotte, per tante e tante sere. Certo, al teatro Galli ce n’è voluto di tempo per trovare la fata madrina giusta: ce ne sono state parecchie, forse troppe, ognuna con la sua formula, semplice o arzigogolata, rispettosa della tradizione o avveniristica. Ma tutte facevano cilecca, per un motivo o per l’altro, e la povera Cenerentola restava a prendere la polvere in piazza Cavour, oggetto di frizzi, lazzi e compatimento, mentre intorno a lei antichi palazzi e monumenti cittadini si rifacevano belli conquistando nuovi ammiratori. Finché, nel 2014, il «bibbidibobbidibù» ha iniziato a funzionare, seppur al rallentatore, e il 28 ottobre la complicata favola del teatro inaugurato da Giuseppe Verdi in persona avrà il suo lieto fine. Più incerta la conclusione della storia per un altro genere di Cenerentole, i riminesi che in questi giorni stanno struggendosi per poter entrare al Galli in quella fatidica sera, vuoi per condividere l’evento clou dell’anno

Se è vero che muore giovane chi al cielo è caro, e che oggi a sessantatré anni si è ancora giovani, lassù qualcuno ama Zanza – sì, anche lassù, in quella dimensione che ci dicono completamente disincarnata. Di sicuro è amato dalle potenze ultraterrene più che da don Raffaele, parroco di Regina Pacis, che gli ha rifiutato il funerale in chiesa per paura del «clamore mediatico», proponendo di officiarlo «in forma riservata», manco fosse stato un delinquente. A Maurizio Zanfanti, che non solo in vita sua non ha mai fatto male a una mosca, ma ha regalato momenti, se non d’amore, di allegra sensualità a migliaia di ragazze che oggi lo ricordano con tenerezza e rimpianto come il migliore degli amici, è stato negato ciò che in Italia è stato concesso a veri e propri pendagli da forca, il cui feretro è stato portato in trionfo, tra musiche suggestive e pioggia di petali lanciati da un elicottero. Una Chiesa che permette che le statue dei santi si inchinino sotto le finestre dei malavitosi ha storto il naso davanti alla bara di un uomo che ha molto amato, e non solo da missionario, in entrambe le accezioni dell’espressione. La stessa Chiesa – è

Accidenti. Ho perso la mia unica occasione per comparire senza veli su un calendario. Pazienza, il calendario del «Punto rosa» lo comprerò ugualmente e lo raccomanderò agli amici, anche se non sono stata selezionata fra le modelle che hanno posato per l’iniziativa. Tutte donne operate di tumore al seno, come me, che hanno declinato a modo loro la trama della deliziosa commedia inglese Calendar Girls. Chi l’ha vista, sul grande schermo o sul palcoscenico (è passata al Novelli la primavera scorsa, protagonista un’irresistibile Angela Finocchiaro), ricorderà che gira tutta intorno a un calendario sexy realizzato dalle probe e non più giovanissime signore di un villaggio di campagna, pronte a spogliarsi davanti all’obiettivo allo scopo di raccogliere fondi per la ricerca contro la leucemia, di cui soffre il marito di una di loro. Le «girls» romagnole, sono ancora più audaci e ambiziose: espongono il loro corpo passato attraverso la malattia e le cure non solo per finanziare i progetti del «Punto rosa», l’associazione che sostiene le pazienti colpite dal cancro al seno, ma anche per dimostrare che la bellezza e il coraggio delle donne non si lasciano vincere dal «brutto male», un male, per fortuna, sempre meno fatale, grazie alla ricerca e soprattutto

Credeteci o no, ma testo e musica pare risalgano addirittura al XVI secolo. E in rete troverete il brano anche in forma di mottetto a quattro voci. E non so cosa darei per vedere la faccia del soprano, del contralto, del tenore e del basso mentre, con lo spartito in mano, nella migliore tradizione dei complessi vocali di musica antica, intonano a pieni polmoni i fatidici versi «Dottore, dottore, dottore del buco del cul, vaffancul vaffancul». Sì, perché di questo stiamo parlando, del coro goliardico che imperversa in occasione delle lauree a Rimini e in tutte le città universitarie del centro-nord – le segnalazioni più “meridionali” vengono dall’Umbria, mentre pare che da Roma in giù lo sboccato «dottore» sia praticamente sconosciuto. Riscoperto negli ultimi decenni, e francamente abusato, comincia a suscitare insofferenza non solo fra passanti e residenti nei pressi delle facoltà, ma fra gli stessi laureandi, molti dei quali cominciano a proibire ufficialmente e tassativamente agli amici di celebrarli in quel modo, anche se non arrivano a minacciare le «cinque frustate sul volto» che in alcune città venivano comminate ai goliardi del buon tempo antico, se disturbavano la quiete pubblica con il peana pecoreccio. A dire il vero, «dottore del buco del

Non che ci sia bisogno di ulteriori prove che il Pd sta vivendo una fase di confusione mentale, e non solo a livello di vertici, ma se qualche irriducibile scettico ancora ne dubita, la polemica sollevata delle donne dem di Riccione contro il boom di matrimoni a villa Mussolini gliene darà la completa certezza. Anziché puntare il dito contro la scelta di contaminare il proprio matrimonio con il reato di apologia del fascismo, o contro il totale cattivo gusto, chiamiamolo così, di sposarsi in un luogo appartenuto a un dittatore aggressivo e razzista che ha trascinato l’Italia in una guerra spaventosa al fianco di Hitler, le donne del Pd la buttano sullo scaramantico: «In quella casa è vissuta una famiglia che ha conosciuto l’infelicità, un capofamiglia che non ha rispettato la civiltà delle regole del matrimonio, la dignità della sua sposa nella fedeltà coniugale». Traduzione: Benito metteva le corna a donna Rachele. Quindi, implicitamente, sposarsi a casa sua non è di buon auspicio per una giovane coppia, il cui matrimonio, influenzato dalle pernicioso karma dell’edificio, durerà al massimo vent’anni e finirà malissimo. Che razza di discorso. Allora, a ben guardare, non è tanto benaugurante nemmeno sposarsi nella casa di un signore che non

A Lewis Carroll, l’autore di Alice nel Paese delle meraviglie, piaceva fotografare le belle bambine, quasi sempre vestite, e comunque con il consenso dei genitori, che spesso erano suoi amici. Ma nemmeno nell’Inghilterra vittoriana, quando l’età del consenso era fissata a dodici anni (e la proposta di elevarla a sedici fu respinta dai probi gentiluomini che evidentemente non trovavano nulla di male nell’avere rapporti sessuali con bambine impuberi) la fissazione di Carroll passò inosservata, e se non gli costò una denuncia per pedofilia, reato che allora non esisteva, gli procurò una fama equivoca, malgrado le sue accertate relazioni con donne adulte. Certo, non rischiò mai il linciaggio, a differenza del 61enne che la scorsa settimana si aggirava nei bagni di Marina Centro fotografando di nascosto bambine in costume con il suo cellulare. Nella memoria del cellulare la polizia ha trovato 220 scatti, una cospicua collezione radunata nel lasso di tempo che a Carroll serviva per realizzare una sola fotografia, e con tutto il garantismo del mondo è proprio difficile trovare motivazioni caste nel safari lolitesco dell’uomo. Che non sarà certo l’unico adulto a frequentare la spiaggia per procurarsi materiale fresco per le proprie ripugnanti fantasie o, peggio, per le fantasie di sconosciuti

Non è più possibile guardare con gli stessi occhi il ponte di Tiberio, al suo posto e perfettamente efficiente oggi come duemila anni fa. Non è più possibile, quando ancora abbiamo negli occhi – e ci rimarrà per un pezzo – la morte in diretta del ponte Morandi, un’opera quasi nostra coetanea, nata audace e moderna ma invecchiata presto e male, trascinando nella sua fine decine di vite. Per noi che abbiamo il privilegio quotidiano di vedere e usare un manufatto bimillenario e ancora funzionale, oltre che bello, in grado di resistere a terremoti, inondazioni, guerre e traffico di automezzi ogni tipo, oltre che all’usura del vento e del mare, è meno credibile un ponte che dura solo mezzo secolo di uno che regge da venti. L‘eternità e la durata sembrano scontate, quando si vive in una città costruita lungo il tracciato di una strada romana, dove anche i ruderi antichi non hanno l’aria di spoglie di una lotta perduta contro il tempo: semplicemente, le architetture antiche, con un atto generoso, si sono fatte da parte, lasciandosi volontariamente rimpicciolire e sbriciolare, per fare posto agli edifici successivi senza far loro troppo pesare la manifesta superiorità dell’ingegneria romana. E che i ponti, in particolare, nell’antica

Nel nostro simpatico paese dove sparare a un migrante con una scacciacani urlandogli «negro di merda» può essere spacciato per «goliardata senza sottintesi razzisti», i turisti che hanno difeso gli ambulanti africani e bengalesi a Igea Marina durante un controllo dei carabinieri sembrano dei giganti dell’antirazzismo. Di episodi del genere - bagnanti che si schierano con decisione dalla parte dei venditori e infamano le forze dell’ordine, invitandole a dedicarsi ai «veri delinquenti» invece che perseguitare dei poveri ragazzi – ce ne sono sempre stati, ma nella prima estate del «governo del cambiamento», segnata da un’impennata dai gli attacchi razzisti, pardon, goliardici, contro gli stranieri, diventano il classico uomo che morde il cane. A Igea Marina, però, non c’erano solo i villeggianti non goliardi. Nell’alterco è intervenuto anche un gruppo di bagnanti anti-migranti: anche questi ci sono sempre stati, ma oggi che uno di loro è ministro dell’Interno non hanno più complessi e fanno coming out a testa e soprattutto a voce alta. A Igea però, più che con gli stranieri, se la sono presa con i loro difensori, mettendo in ulteriori difficoltà i carabinieri, che dovevano eseguire i controlli sui venditori e al tempo stesso impedire che i buonisti e i cattivisti venissero

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