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Se nella bistrattata “prima repubblica” qualcuno, durante un comizio, avesse manifestato il suo disprezzo verso le donne costrette ad abortire usando le stesse frasi pronunciate da Salvini il giorno di San Valentino a Roma, si sarebbe senz'altro preso dell'idiota dai suoi stessi sodali politici. I quali, pur pensandola come lui nel merito, avrebbero avuto almeno l'accortezza di documentarsi prima di aprire bocca, evitando così uno sfoggio di solenne ignoranza con quella ridicola frase: «Il pronto soccorso non è la soluzione a stili di vita incivili». Anche il più dozzinale dei chiamati a gestire la cosa pubblica dovrebbe invece sapere che la legge 194 esclude in modo inequivocabile che il pronto soccorso abbia un qualsiasi ruolo nel complesso iter sanitario per accedere all'interruzione di gravidanza. Ho sempre considerato – anche se talvolta a fatica – che sia buona norma mantenere la spinta al civile disprezzo per qualcuno entro i limiti del sarcasmo. Per questo mi fa “morire dal ridere” il Salvini che, costruitosi a tavolino la parvenza del bigotto, va sventolando e sbaciucchiando quella strana catenella di perline, a lui sconosciuta fino a che Antonio Socci – uno che vorrebbe “dare fuoco” a Papa Francesco – non gli ha spiegato essere la corona

Gli immigrati leghisti che siedono al Consiglio Comunale di Rimini si chiederanno cosa sia la “renga”. Letteralmente si tratta della traduzione in dialetto romagnolo dell'arringa, divenuta il distintivo della diffusa miseria di un tempo, quando “s'una rénga e magnèva una faméja”. Proprio per questo “la renga” è diventata anche il sinonimo canzonatorio della sconfitta ricevuta: “L’é cativa la rénga!”. Lunedì mattina era una goduria assistere alla conferenza stampa di Salvini, che svestiti i panni del lupo azzannatore aveva assunto le sembianze della pecorella smarrita. Lo vedevi cosi cincischiare pezzi di frasi sconnesse, fingendosi pateticamente convinto che in una competizione elettorale il vero obiettivo sia mettere paura all'avversario. Se poi si vince meglio, se non si vince pazienza. Mancava solo l'esortazione a ricordare, proprio alla vigilia dell'ennesimo Festival di Sanremo, le sagge parole che lì cantarono nel 1967 Shel Shapiro dei Rokes e il grande Lucio Dalla: “bisogna saper perdere

“Gallina che canta per prima ha fatto l'uovo”, dice un proverbio riferendosi a chi, non avendo la coscienza a posto, giochi d'anticipo inventandosi un motivo qualsiasi per accusare qualcun altro. Per uno “scherzo lessicale” la gallina in questione si chiama Galli, ed è il locale portaborracce di Salvini che, data la volatilità del suo pensiero, unita alla compiaciuta “aria sonnambolica” che ostenta nelle foto, ricorda però un altro pennuto: il gabbiano, comunemente detto “cocale” o in dialetto “cuchel”. Come noto, il Consigliere Regionale uscente e candidato Giorgio Pruccoli, due domeniche fa nella sua Verucchio, s'è sentito insistentemente scrutato da un tizio, per tutto il tempo in cui il caporione della Lega ha impreziosito la “Fira de bagoin” recitando le sue solite “baghinate”. È comprensibile che Pruccoli abbia perciò pensato si trattasse di un buttafuori leghista che lo stesse “badando”, come precauzione dovuta al fatto di avere egli espresso l'ingenuo auspicio di potersi, quel giorno su quella piazza, confrontare pubblicamente con Salvini. Per questo ha usato il termine “ceffo” nel commentare l'accaduto. Poi è stato detto trattarsi di un carabiniere in borghese, che non s'è ben capito se portasse o meno un distintivo, comunque ben difficile da riconoscere come tale. Ma a quel

Venerdì faceva tenerezza lo sfogo sul Corriere di Rimini del mancato sindaco disc jockey di Misano, Claudio Cecchetto: «Riempio San Siro ma Misano mi snobba (..) Avrei voluto mettere tutta la mia esperienza a disposizione di Misano» ma «nell'attuale amministrazione (..) c'è gente che pensa solo alle rotonde», per cui «il sistema non permette alla minoranza di essere ascoltata». Ma come, Misano ha la fortuna di avere come Consigliere Comunale uno che il resto d'Italia gli invidia, e quel dispettoso del Sindaco cosa fa? Lo ignora. Ma si può essere più incoscienti di così? So già che qualche “signor precisini” obietterà che però Cecchetto ha partecipato, per non più di venti minuti, ad una sola delle sette sedute del Consiglio finora svolte. E con questo? È Piccioni che dovrebbe darsi una mossa, imitando la sua collega sindaca (pardon, il suo collega sindaco) Domenica Spinelli, che a Coriano s'è inventata – mi dicono su ispirazione dell'omonima canzone di Arisa (non chiedetemi chi sia) – la riunione di Giunta “ci sei e se non ci sei”. La cosa funziona così: convocata la Giunta, se un assessore ha tempo da perdere, o ha voglia di sgranchirsi le gambe, può come una volta arrivare fino in Comune e

Come qualche lettore forse ricorderà, lo scorso anno, alla vigilia del 6 gennaio, mi presi la briga di diffondere la notizia, appresa in via riservata, che la Befana fosse tentata di saltare nel suo giro la nostra Provincia. Dato il clima di quei giorni, temeva infatti che il suo armamentario ed il suo abbigliamento potessero farla apparire una fuoriuscita dal campo nomadi di Via Islanda, agli occhi sia di Zuccardo, o come si chiama il Consigliere legaiolo che politicamente prospera sull'altrui coglionaggine; sia di quel Galli dall'aria non propriamente sveglia, che nei giorni scorsi ha associato uno dei soliti rigurgiti razzisti – «se sono nomadi se ne devono andare» – alla rituale stronzata del «prima gli Italiani». Omettendo di riconoscere, per ignoranza o per malafede, che la gran parte di loro è invece italianissima e che anzi più d'uno, essendo nato a Rimini, risulta addirittura più riminese di lui e di Zoccardo (o come si chiama), che invece vi ci sono immigrati da altrove. Alla fine, l'anno scorso la Befana ha desistito da quel suo iniziale proposito, ma quest'anno la situazione appare ancora più grave, con il rischio concreto che domattina le tradizionali calze risultino vuote in tutta l'Emilia Romagna. Per colpa

Evidentemente non bastava la “grezzura” dell'aspirante governatrice legaiola a determinare una sufficiente sintonia fra la qualità della sua candidatura e la pezzenteria del messaggio politico con cui Salvini, suo mentore e protettore, sta da mesi inquinando l'aria in Emilia Romagna. E sì che la Borgonzoni ce l'ha messa tutta per mostrarsi all'altezza

Pur avendone viste di tutti i colori nei suoi oltre settant'anni di vita, mai il Senato della Repubblica aveva “ospitato” un'infamia pari a quella consumatasi lo scorso 30 ottobre, quando il marmagliume salvinian-meloniano, con l'aggiunta della ruota di scorta berlusconiana, ha messo in mostra una vergognosa faziosità politica, sbattendo in faccia alla Senatrice Segre l'irrisione verso la proposta – poi accolta dalla maggioranza dei senatori – di creare quella che viene oramai generalmente chiamata la “Commissione contro l'odio”. Il tutto condito con un surplus di ipocrisia, poiché non avendo il coraggio di votare contro, i tre partiti si sono astenuti, ben sapendo che per il regolamento del Senato l'effetto è il medesimo. Dando voce al “tormento” della parte più civile di questo nostro Paese, Liliana Segre, forte del suo “curriculum” di sopravvissuta ad Auschwitz, aveva presentato quel giorno una mozione che si concludeva con la richiesta al Parlamento di istituire una «commissione straordinaria per il contrasto dei fenomeni di intolleranza e razzismo, antisemitismo e istigazione all'odio e alla violenza nei confronti di persone o gruppi sociali sulla base di alcune caratteristiche, quali l'etnia, la religione, la provenienza, l'orientamento sessuale, l'identità di genere o di altre particolari condizioni fisiche o psichiche». Passi per le

Non ci sono più parole per irridere l'annuale esercizio di demenza statistica a cui per l'ennesima volta, nei giorni scorsi, s'è lasciato andare il Sole 24 Ore, che presto verrà inevitabilmente seguito da Italia Oggi. Per quei due fighettosi quotidiani, Rimini avrebbe oramai consolidato l'irreversibile titolo di vice-capitale italiana del crimine e del malaffare, al cui confronto risulterebbero ben più affidabili e sicure perfino Napoli, Palermo, Caserta e “compagnia sparante”. Tutto questo perché la loro scienza statistica si esaurisce nella peregrina convinzione che il tasso di sicurezza di un singolo territorio sia inversamente proporzionale al numero di denunce che vi vengono presentate alle autorità preposte. E dal momento che in molte zone d'Italia denunciare un “fattaccio”, non al capo mandamento ma a polizia e carabinieri, fa correre il rischio di vedersi bruciare l'auto o il portone di casa, ecco che allora, con buona pace di Saviano, secondo il Sole 24 Ore si vive più sicuri a Scampia che a Miramare. Come se non bastasse, poiché a far testo è il coefficiente ricavato dividendo il numero delle denunce per quello degli abitanti, nel calcolare quello riferito a Rimini, i nostri “statistici per caso” si limitano a considerare i soli suoi residenti in pianta stabile, incuranti

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