Auguri a tutti i papà. Anzi, a tutti i babbi, perché qui in Romagna li chiamiamo così dalla notte dei tempi, e mio babbo se lo chiamo “papà” nemmeno si volta. Ma non c’è pericolo: non mi sognerei mai di chiamarlo altrimenti, e anche per i miei figli, per quanto mezzi emiliani, il babbo è solo babbo.
Non è una questione frivola come sembra. Di mamma ce n’è una sola anche dal punto di vista lessicale: si chiama così da Trento a Trapani, con lievi modifiche (quella dei cori alpini è la mama, quella delle commedie di Eduardo è mammà). Il padre, invece, è sempre un po’ incerto. Perché non esiste solo la dicotomia babbo-papà, cioè grosso modo Romagna e Italia centrale contro Nord e Sud, ma in alcune zone del Meridione si usano (o si usavano, prima del dilagare dell’italiano televisivo) i più rari atta e tata. Qualche boomer se lo ricorda il racconto mensile di Cuore di De Amicis, «L’infermiere di Tata», la storia strappalacrime del ragazzino napoletano che va in cerca di suo padre in tutti gli ospedali? Io pensavo che tata fosse femminile e mi chiedevo dove fosse finita questa tata, visto che i personaggi del racconto erano tutti maschi.
Nell’800, quando uniformare la lingua era importante tanto quanto unificare l’Italia, la diatriba su come chiamare il padre era scottante, proprio perché è una delle prime parole che imparano i bambini, e come tutto quel che arriva in bocca ai neonati doveva essere sano, pulito e non adulterato da pericolosi esotismi. Per questo i puristi, per i quali l’italiano più perfetto era il toscano fiorentino (quello parlato dal popolo, non quello dei signori, inquinato dai contatti con lo straniero), sconsigliavano caldamente papà, considerato uno sgradevole francesismo, preferito dalla borghesia sempre pronta a scopiazzare gli usi transalpini per darsi un tono.
«La voce papà è una leziosaggine francese che suona nelle bocche di quegli sciocchi i quali si pensano di mostrarsi più compiti scimmiottando gli stranieri», si legge in un vocabolario del 1877. La sfumatura classista era sentita ancora nei dizionari del primo Novecento, dove si sottolineava che i figli del popolo dicono babbo, quelli dei signori papà – tant’è vero che ancora oggi i ragazzi viziati da genitori abbienti si chiamano «figli di papà» e non «di babbo».
Poi, per fortuna, il romagnolissimo Pascoli, che non era proprio l’ultimo venuto, tagliò la testa al toro: scrisse che non era il caso di rompere le scatole ai bimbi e bisognava lasciargli chiamare i genitori come volevano. Quel che il cigno di San Mauro non considerava è come vogliono essere chiamati i genitori. Essendo cresciuta nel Triveneto, ogni tanto anziché babbo mi veniva da usare papà, come gli altri bambini, ma subito mi arrivava la diffida, sia paterna che materna: in una famiglia romagnola, anche se emigrata, papà non si poteva proprio sentire.
Non so come vanno le cose in Toscana, Umbria, Marche, Sardegna e Lazio settentrionale, le altre aree in cui prevale ancora il nobile e autoctono babbo, attestato anche in Dante, ma qui in Romagna mi sembra che anche ai padri più giovani piaccia essere babbo, o ba’ e non papà, come piace a Salvini, o peggio ancora, papi, di berlusconiana memoria.
Eppure esiste un compromesso, un appellativo paterno che potrebbe accontentare sia i babbisti che i papisti. Ed è quello che probabilmente veniva usato a Nazaret per il falegname Giuseppe, il vero festeggiato di oggi. In ebraico, come sanno tutti i fan di serie israeliane come Shtisel e Fauda, il padre è abba, che è una perfetta via di mezzo fra babbo e papà, oltre che il nome della famosissima band di Mamma mia. Più inclusivo di così…
Lia Celi