Questa teoria secondo cui i cani finiscono per assomigliare ai loro padroni (e/o viceversa) non mi ha mai convinto fin dalla prima volta che l’ho sentita, nella disneyana Carica dei 101. Eppure ha tanto credito che in questo momento al Grand Hotel c’è la fila per mettersi in posa insieme al proprio quattrozampe e diventare una delle cinquanta coppie umano-cane immortalate dal fotografo Giorgio Salvatori nel quadro del format «Tale cane, tale padrone».
Dai primi scatti apparsi sui giornali, appare difficile cogliere le somiglianze, e soprattutto capire come mai una piacente signora, che presumibilmente si affida a professionisti ben pagati per farsi asportare la peluria del viso e lisciarsi a piombo i capelli, sia lieta che il pubblico possa cogliere delle affinità fra lei e il suo scapigliato schnauzer.
Non conosco donna così totalmente priva di autostima da arrossire di piacere se le si dice che assomiglia al barboncino che tiene in braccio, per quanto la bestiola possa essere agghindata, pettinata e profumata, e per quanto la signora si definisca la sua «mamma».
Forse nemmeno i cani, o almeno non tutti, sarebbero contenti di essere paragonati ai loro padroni: certi golden retriever sono decisamente più belli, eleganti e simpatici di chi li porta al guinzaglio, non per colpa dell’umano, ma perché è oggettivamente difficile per chiunque competere in bellezza, eleganza e simpatia con un golden retriever.
E non parliamo dei cani dei punkabbestia, dei veri figurini rispetto ai loro ciancicati compagni bipedi. Altro discorso per quel che riguarda il carattere, ma si capisce: il cane di razza viene scelto in base alle esigenze dell’umano. E’ difficile vedere un vegano pacifista corredato di pitbull con collare borchiato, o una nonnina con un terranova, a meno che non si tratti di una nonnina superatletica disposta a correre con il cagnone sui prati e a lanciargli la palla sulla spiaggia.
E ci sono casi di pitbull obiettori di coscienza, scaricati dal padrone deluso dalla sua scarsa ferocia, che vengono adottati da vegani pacifisti e magari diventano vegani pure loro.
Sarebbe bello poter somigliare ai cani anche in certi tratti così rari negli uomini, la devozione, la lealtà, lo spirito di adattamento, la semplicità, l’accontentarsi del poco, insomma, tutte le qualità che hanno fatto del cane l’unico animale cui è stata intitolata una scuola filosofica, il cinismo – nome che deriva dal greco «kyon», cane, appunto, non il viziato cocco di casa ma quello vagabondo, libero e padrone di se stesso.
Il cinismo in senso filosofico, insomma, è un’anticipazione ellenistica del concetto di decrescita felice, cioè rifiuto di ciò che non serve. In ogni cane randagio c’è sia Diogene che Serge Latouche, e portarci a casa un maestro di pensiero a costo zero è solo una delle tante buone ragioni per cui sarebbe meglio scegliere il proprio cane al canile.
Lia Celi @liaceli.it