Che gioia per Silvia Romano, una che è andata ad aiutarli a casa loro
9 Maggio 2020 / Lia Celi
C’è qualcosa, nella gioia per la liberazione di Silvia Romano, che va al di là del comprensibile sollievo per la fine di un incubo durato un anno e mezzo. Incubo per la nostra connazionale, per la sua famiglia e i suoi amici, e per tutti gli italiani (molti, per fortuna) che non credono che farsi gli affari propri sia la migliore e più sicura regola di vita.
Ricorderete certi inqualificabili rutti cartacei emessi dai soliti opinionisti cattivisti all’epoca del sequestro (se l’è andata a cercare, se voleva fare del bene non c’era bisogno di andare in Africa, le piacevano i negretti e via farneticando), per non parlare delle solite porcherie di cui si chiazzano i social ogni volta che succede qualcosa a un cooperante, cioè a qualcuno che va realmente ad aiutare a casa loro quelli di cui i sovranisti dicono “aiutiamoli a casa loro”.
Se poi si tratta di una cooperante, il livello precipita a tre metri sotto il letamaio. Chissà se la pandemia da cui stiamo lentamente uscendo ha insegnato qualcosa a queste teste e cuori bacati, soprattutto a quelli residenti nella regione di Silvia, Lombardia, quella più colpita dal coronavirus, e che si sono visti soccorrere, in questi mesi, da medici e infermieri arrivati dalla Cina e da Cuba per rimediare alle falle della sanità “migliore d’Italia”.
Uomini e donne che hanno lasciato le loro case dall’altra parte del mondo, hanno accettato di vivere in sistemazioni di fortuna, lontani dai propri affetti, per curare i sostenitori del “facciamoci i fatti nostri specie quando chi ha bisogno d’aiuto ha la pelle un po’ più scura”. Non è una sindrome solo italiana, né tantomeno lombarda: anche Boris Johnson, il premier inglese alfiere della Brexit e del “prima gli inglesi”, oltre che dell’immunità di gregge, quando si è ammalato di Covid-19 è stato curato da un infermiere portoghese di nome Luis Pitarma, uno dei tanti stranieri su cui si regge il servizio sanitario nazionale britannico. (Dimesso dalla clinica, BoJo ha ringraziato l’infermiere, anche se fra i tanti nomi che Boris ha dato al suo ultimo figlio non c’è il suo, troppo poco british, ma Nicholas, quello del medico inglese che dirigeva l’equipe ospedaliera).
Speriamo che la pandemia ci abbia reso anche solo un po’ migliori rispetto a quando bofonchiavamo «se l’è andata a cercare» tutte le volte che un volontario o un reporter venivano rapiti o uccisi in uno scenario di guerra o di povertà.
Perché con il coronavirus ci siamo sentiti tutti precipitati all’improvviso in uno stato di guerra e povertà. Ci siamo scoperti bisognosi, senza sufficienti presidi sanitari, senza scuole per i nostri bambini, in difficoltà per procurarci le medicine o perfino il cibo, dipendenti dall’aiuto di volontari per tante necessità quotidiane.
Se lo abbiamo capito, saremo in grado di riabbracciare con più calore Silvia Romano che torna a casa – anzi, no, niente abbracci, non sia mai che la povera ragazza si sia salvata dalle grinfie dei banditi solo per cadere in quelle di un terrorista invisibile che ha al suo attivo migliaia e migliaia di vittime.
Il suo rientro sana e salva non è solo una buona notizia, è la buona notizia che ci voleva in questo momento: il lieto fine di una storia di generosità, coraggio, sfortuna e fortuna, conclusa positivamente grazie a lavoro paziente, ininterrotto e silenzioso. Tutte cose che anche gli italiani hanno sperimentato in prima persona nell’emergenza coronavirus, e che dovranno tenersi strette anche nel prossimo futuro. Insieme a Silvia Romano.
Lia Celi