Ve lo ricordate l’Occhio, il quotidiano fondato dal compianto Maurizio Costanzo? Io sì. Dev’essere stato uno dei primi quotidiani che ho comprato da ragazzina. Mi incuriosiva perché era un tabloid, più pop di Repubblica, aveva articoli brevi e leggibili con titoli a effetto e somigliava ai tabloid inglesi, ma senza le donne nude. Il fascino della novità si esaurì presto, a pochi mesi dall’uscita, nel 1980, le vendite erano già crollate e poi, con lo scoppio dello scandalo P2, cui appartenevano sia Costanzo che i vertici della Rizzoli, editore dell’Occhio, il giornale sparì dalle edicole, e ben presto anche dalla memoria.
Forse è l’eredità più caduca del personaggio appena scomparso, che chiamare giornalista è decisamente riduttivo. Perché Maurizio Costanzo, personalità tanto poliedrica quanto inafferrabile, è davvero uno dei pochi di cui si può dire «muore l’uomo ma non le sue idee», comunque le si giudichino. Idee di televisione – il suo regno per tanti anni -, che hanno modellato non solo le nostre serate, ma anche la trasmissione della cultura, il confronto sulle idee e soprattutto la politica.
Costanzo introdusse subito i politici nel format televisivo che lui per primo aveva lanciato in Italia, il talk show, prima con Bontà loro, e poi con il Maurizio Costanzo Show. Nel giro di pochi anni, fu il format del talk show a introdursi nei politici, fino ad allora confinati negli austeri spazi delle tribune officiate da Ugo Zatterin. Nel corso del tempo gli onorevoli, i senatori e perfino i premier sono diventati animali da telecamera, con uno staff di consulenti d’immagine e ghost writer per suggerirgli battute spiritose perché non tutti hanno la verve di Andreotti – il cui definitivo tramonto pubblico non a caso fu sancito non da accuse, sospetti e presunti baci con boss mafiosi, ma da un malore occorsogli proprio durante un talk-show.
E mica è successo solo ai politici. Chiunque diventi appena un po’ famoso, che sia la vittima di un sopruso, l’autore di un best seller, uno scienziato pazzo o un’indossatrice, deve mettere in conto l’invito in un salotto televisivo, dove non solo ci si aspetta che risponda a domande che lo riguardano, ma che abbia opinioni su qualunque argomento e sia pronto a rimbeccare o, ancora meglio, a interrompere gli altri ospiti, possibilmente in modo fastidioso, perché la gazzarra fa audience.
Ed è stato Maurizio Costanzo a incoraggiare e a brevettare la pratica di cui il risultato più rappresentativo è un oscuro critico d’arte che senza il Costanzo Show non sarebbe mai diventato Vittorio Sgarbi. E Costanzo era il solo a saper dirigere la canea sul palco con un «bboni, bboni» equivalente al frustino con cui il signor Barnum teneva sotto controllo il suo circo di fenomeni.
Ma del circo del talk show alla Costanzo, formula che dura ancora oggi, fa parte anche il pubblico in studio, cui si chiede di applaudire sia il reduce dei lager che il negazionista, sia la suora missionaria che il pornodivo, sia lo scrittore pensoso che la pesciarola sboccata: l’applauso è una livella che mette sullo stesso piano (pianterreno, se non seminterrato) tutto e tutti tranne il conduttore.
Nessuno più è in grado di governare con pacato cinismo ospiti e platea come faceva Maurizio Costanzo. I suoi eredi non ne hanno né l’esperienza né lo spessore. Non hanno, soprattutto, la malinconia nascosta di un uomo che ha fatto la nostra televisione, ma che si era fatto col giornalismo, il cinema, la musica e il teatro, e lì aveva lasciato il cuore. Forse era questa nostalgia a dargli, come conduttore, il tono stanco e un po’ annoiato di chi sotto sotto vorrebbe essere da un’altra parte. Magari a scrivere il testo di un’altra canzone bella come Se telefonando.
Lia Celi