HomeIl corsivoCome si diventa italiani? Lo decide chi bruciava il Tricolore


Come si diventa italiani? Lo decide chi bruciava il Tricolore


4 Luglio 2022 / Nando Piccari

Certo che vedersi piombare addosso la presa di posizione della Conferenza Episcopale a favore dello Ius Scholae dev’essere stata una bella botta per lo sbaciucchiatore seriale di corone e crocefissi Matteo Salvini. Ora sarà un bel problema continuare a fingersi il belante seguace del Santo Padre, che negli ultimi tempi ha osannato almeno sei volte al giorno. È facile immaginare che si vedrà pertanto costretto a retrocedere Bergoglio al suo precedente status di “Papa comunista”, per di più reo di avere oggi messo un altro comunista, il neo-Cardinale Zuppi, a comandare sui Vescovi italiani.

Nel suo articolo Lia Celi ha già brillantemente irriso la furiosa goffaggine dei “sovranisti” che in Parlamento stanno cercando di affossate lo Ius Scholae. Per costoro non significa niente che un ragazzo di origine straniera abbia compiuto un ciclo scolastico in Italia, abbia amici italiani dalla nascita con i quali gioca e si confronta, parli con l’accento del luogo in cui vive e che ama perché è “casa sua”.

Per la delirante masnada melon-salviniana che in queste ore sta ragliando improperi razzisti, se quel giovane vorrà tentare di ottenere la cittadinanza italiana dovrà sottoporsi non già ad un esame improntato a “civile serietà”, ma sottostare alla stronzaggine di una lunga serie di test del tipo: «perfetta conoscenza degli usi e costumi italiani mediante prova orale sulle tradizioni popolari più rinomate»; «un test scritto di lingua italiana sul presepe nel nostro Paese»; «l’attestazione della conoscenza degli usi e costumi italiani con prova orale sulle sagre tipiche italiane»; «un colloquio sulle festività regionali e uno scritto sulle ricorrenze del calendario»; «un riassunto su un brano sulla musica italiana»; «un test sui prodotti tipici gastronomici italiani»; «specifiche nozioni di geografia dell’Italia».

Dovrà inoltre aver conseguito almeno la media dell’otto per la licenza media e il diploma, o una valutazione non inferiore a 90/100 per una qualifica professionale.

A tutte le altre considerazioni sulla repellenza di questo delirio, c’è da aggiungere che solo una mente bacata può ignorare il disagio che provocherebbe in tanti ragazzi “Italiani doc”. Quelli che saltano di gioia quando prendono sette e farebbero scena muta se venissero a loro volta interrogati sulle insulse futilità con le quali debbono invece misurarsi i loro discriminati compagni di altra “provenienza anagrafica”, che dovranno invece sapere tutto su La Festa dea Sardea di Robegano, La Sagra Poenta e Bacalà di Thiene, La Sagra d’la carn a la losa di Cour, La Fera Dl’amson di Monferrato.

Il motivo per cui la romanesca “sora Lella” Giorgia Meloni sta mettendoci l’anima in questa truculenta crociata lo si capisce perfettamente: nel dna del suo partito si trovano ancora ampie tracce del “progenitore nero” Almirante, che sta in mezzo al cuore prima di tutto a lei («Le idee non muoiono mai. Un pensiero per Giorgio Almirante») e che diceva, compiaciuto di sé: «Io sono stato uno dei pochi giornalisti italiani che hanno aderito alle tesi razziste che furono enunziate dal regime nel 1938».

Era quello il tempo in cui Almirante sbandierava ai quattro venti il suo credo: «Il razzismo è il più vasto e coraggioso riconoscimento di sé che l’Italia abbia mai tentato. Nel nostro credere, obbedire, combattere noi siamo esclusivamente e gelosamente fascisti. Esclusivamente e gelosamente fascisti noi siamo nella teoria e nella pratica del razzismo».

Non sono dunque pochi i fratelli (e le sorelle) d’Italia che sentendosi custodi del pensiero almirantiano si chiamano l’un l’altro “camerata” e ogni tanto sono presi dal bisogno di fare il saluto romano, magari durante l’evento fognario che si tiene un paio di volte all’anno a Predappio.

Il massimo di accoglienza che costoro sarebbero disposti a concedere ai giovani immigrati sarebbe che i ragazzi “italiani doc” salutassero il loro arrivo a scuola cantando “Faccetta nera, sarai romana / e pe’ bandiera tu c’avrai quella italiana”. Per poi intonare subito dopo, tutti assieme: “Giovinezza, giovinezza / Primavera di bellezza / Nella vita e nell’asprezza / Il tuo canto squilla e va”.

Ma se l’ossessione per la “difesa dell’italianità” che mostra oggi “il partito ancora un po’ neofascista” ha un’origine lontana, quella della Lega è un’invenzione dell’altro ieri. L’amore per l’Italia di Salvini è infatti passato dall’arcinoto «con il tricolore mi ci pulisco il culo» lasciatogli in eredità da Bossi all’odierno «la cittadinanza italiana non si regala, si deve meritare». Il tutto non alla fine di un percorso di crescita civile, ma solo come effetto di un tornaconto politico perseguito con cinica disinvoltura.

Il Salvini che oggi esalta l’italica purezza patriottica è quello che fino all’altro ieri a Radio Padania conduceva la trasmissione “Mai dire Italia”, dove organizzò telecronache in diretta per tifare Francia e Germania rispettivamente alle finale degli Europei 2000 e dei Mondiali 2006. Questo perché «Il Tricolore non mi rappresenta, mi opprime, non lo sento come la mia bandiera. Non esiste un articolo della Costituzione in cui c’è scritto che bisogna tifare per l’Italia».
Ecco perché al suo comizio del 2015 a Bologna era tutto un cantare «Bruciamo il tricolore». E qualche volta l’hanno bruciato davvero.

Come non ricordare poi la venerazione che Salvini nutriva verso il 2 giugno, Festa della Repubblica, di cui da eurodeputato arrivò a chiedere l’abolizione trattandosi solo di uno spreco di soldi, mentre nel 2017 scriveva ai sindaci leghisti: «Il 2 giugno tenetevi lontani da qualsiasi celebrazione. Non c’è nulla da festeggiare».

È per questo che il giorno delle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia spostò la sua scrivania in piazza della Scala («Per me sarà una giornata di lavoro con i milanesi») e con i suoi giovani padani si mise a distribuire bandiere di Milano recanti la Croce di San Giorgio.

Ma sarà mai possibile che un simile cabarettista possa pretendere di decidere lui a chi assegnare lo Ius Scholae? Anzi lo «Ius Schola», come l’ha ripetutamente chiamato alla Camera l’on. poliziotto leghista che si è beccato due condanne per aver diffamato Stefano Cucchi e un’altra vittima di violenze della polizia.

Non ricordo il suo nome e non ho voglia di perdere tempo ad andarlo a cercare.

Nando Piccari