Lo so che non è proprio quello di cui bisognerebbe parlare la mattina di Pasqua, ma ve la ricordate la mucillagine, il tappeto maleodorante di alghe che ha funestato il turismo riminese nel 1990? Dopo più di trent’anni, fa ancora quasi paura nominarla, come se solo evocarne il nome – e in un momento così delicato per la ripresa dell’industria delle vacanze dopo la pandemia – rischiasse di materializzarla di nuovo.
La paura è comprensibile. Ci può essere qualcosa qualcosa di peggio, per una città votata al turismo balneare, di una puzzolente poltiglia marrone che rende il bagno in mare un’esperienza tipo palude Stigia dell’Inferno dantesco?
Ebbene sì. Il peggio è una spiaggia disseminata di siringhe sporche nascoste nella sabbia, pronte a pungere il piede del bagnante che fugge schifato dall’acqua. Che è proprio quello che, a quanto pare, ci siamo risparmiati in quegli anni, stando alle rivelazioni del mafioso Gaspare Mutolo, sicario affiliato al clan dei Corleonesi.
Scherano di Totò Riina, un’impressionante somiglianza con l’Aldo Giuffré di La ragazza con la pistola, a quei tempi Mutolo, oltre che ad ammazzare chi faceva sgarri al boss si dedicava ai furti nelle ville del Nord, aveva una base proprio a Rimini, in via Garibaldi, sopra un ristorante che apparteneva a una nipote di Pippo Calò, il tesoriere di Cosa Nostra, invischiato nei peggio misteri d’Italia.
Ebbene, come ha raccontato in un’intervista a Oggi, il signor Gaspare Mutolo, insieme ad altri malavitosi suoi colleghi, si fingeva rappresentante di enciclopedie e andava a suonare ai cancelli delle case di lusso in giro per la Padania. Se risultavano vuote, la banda penetrava nella villa e la svaligiava. Se il proprietario rispondeva, gli vendevano un’enciclopedia in quaranta volumi – in pratica, lo svaligiavano a rate (e se era così frescone da acquistare dei libri da uno con la faccia patibolare di Mutolo, un po’ se l’era pure meritato). Poi se ne tornava bel bello a Rimini, dove probabilmente la nipote di Calò lo accoglieva con un bel piattone di pasta alla Norma.
Si può immaginare quanto fossero arrabbiati i mafiosi come Mutolo quando Totò Riina fu arrestato, nel 1993 (“tradito dalla targa pari”, come titolò in prima pagina il settimanale satirico Cuore). Così arrabbiati che, fra le varie rappresaglie contro lo Stato, valutarono anche l’idea di “minare” la spiaggia di Rimini con siringhe sporche di sangue infetto.
Questa non l’ha raccontata Mutolo (che in seguito si pentì, più delle sue gesta da venditore di enciclopedie che di quelle di mafioso, presumo), ma quel sant’uomo di Giuseppe Brusca, uno dei responsabili della strage di Capaci: «Ci furono riunioni e il progetto era già a buon punto, tanto che eravamo già riusciti a procurarci il sangue…».
Ammesso che non sia una fanfaronata, mi domando cosa dissuase Cosa Nostra dal suo intento. Forse il fatto che il virus esposto all’aria e al sole resiste solo 20-30 minuti, e comunque all’epoca c’erano tanti di quei fattoni a Rimini che sarebbe stato veramente difficile distinguere le loro siringhe da quelle della mafia?
Ma non è importante. Quel che importa è quel che la nostra città ha rischiato e subito, quando era uno degli scenari preferiti dalle mafie. Uso l’imperfetto non perché pensi che nel 2022 Rimini sia popolata solo da angioletti che la crimininalità organizzata nemmeno sanno cos’è. È che per sapere esattamente cosa sta succedendo ora nel segreto di qualche appartamento sopra insospettabili locali della città forse dovremo aspettare un’intervista a Oggi datata 2053. Buona Pasqua a tutti.
Lia Celi