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Il libro della giovane riminese Benedetta Cicognani "Onorevole Parolaccia"


Dal vaffa alla str*, quando la politica campa di volgarità


22 Novembre 2024 / Stefano Cicchetti

Negli ultimi anni, la politica ha cambiato registro. Basta il linguaggio aulico di un tempo: oggi si parla senza freni, e spesso senza filtro. Le parolacce e gli insulti sono diventati armi comunicative, usate con disinvoltura da leader che non temono di sporcare i propri discorsi pur di farsi ascoltare. A parlare di questo, Benedetta Cicognani, 27enne riminese, autrice di ‘Onorevole Parolaccia – Perché il turpiloquio ha conquistato il linguaggio politico’, un libro uscito di recente per la FrancoAngeli. I suoi esordi nel giornalismo sono stati con Chiamamicitta.it.

Benedetta, come mai ha deciso di scrivere un libro su questo tema?

“Ogni volta che si accende la TV e si scrolla i social, c’è un politico che insulta l’altro o accusa la forza avversario di essere responsabile di quello che non va. Sempre di più, la dialettica dei leader lascia campo libero a epiteti volgari, turpiloquio, sfottò. Mi sono chiesta: è una questione di stile o c’è dietro una strategia? Secondo me, la seconda”.

Non tutti però usano parolacce, la segretaria del PD Elly Schlein, ad esempio, sembra tenersi lontana da questo frasario. È l’eccezione che conferma la regola?

“Schlein ha un linguaggio fresco ed evita il ricorso alla volgarità tout court, ma non rinuncia a toni netti e ogni tanto polarizzanti. È un approccio comunicativo coerente con la sua immagine di alternativa ai leader più aggressivi e ‘destrorsi’, ma tutto questo non la esonera dalla logica dello scontro. Circumnaviga l’offensiva volgare, senza sbarcarci”.

Giorgia Meloni invece come si colloca in questa dinamica?

“La prima scena che viene in mente è legata al famoso ‘sono quella str++++’ dello scorso maggio, a Caivano, nel suo saluto al presidente della Campania De Luca. Secondo me è stata una parolaccia significativa del suo modo di fare e di comunicare: una resa dei conti, una parolaccia-manganello più che una parolaccia ironica”.

E poi c’è il caso del sindaco di Terni Stefano Bandecchi.

“Sì, il primo cittadino di Terni sta trasformando il turpiloquio nel suo linguaggio identitario, nella sua carta di identità. È un suo modo per uscire dai confini umbri e diventare un politico dalla popolarità nazionale. Una sorta di trampolino di lancio mediatico”.

Passiamo al famoso ‘Vaffa’ di Grillo. Perché è stato così dirompente?

“Una parola forte, che ha sintetizzato ed è entrata in sintonia con il malcontento di tantissime persone verso la politica tradizionale. Grillo ha trasformato la parolaccia nel ‘seme’ di un partito politico che in passato ha oltrepassato anche il 30%. Il suo Vaff++++++ è stato investito quasi di una missione salvifica. Grillo si è presentato come un Robin Hood politico pronto a combattere contro l’establishment e salvare l’Italia da un famigerato ‘loro’”.

E invece il linguaggio di Matteo Salvini?

“Lo si può immagine come lo chef del capro espiatorio, anche se è una similitudine un po’ strana. Salvini, davanti a ogni problematica o domanda scomoda, ha la sua ricetta pronta, il suo piatto forte: il capro espiatorio appunto, che una volta è l’immigrato, l’altra volta la mascherina… Ad oggi, direi che ambisce ad essere il Trump italiano, e la cravatta rossa che sta indossando in questi giorni ne è la prova. Lilly Gruber, intervistandolo ad Otto e Mezzo, ha fatto molto bene a evidenziare anche con una certa dose di ironia questo cambio look dal tempismo non casuale”.

Benedetta Cicogani

E torniamo indietro, al Celodurismo di Bossi.

“‘D’Alema vorrebbe tenere me per le pal++ come tiene Berlusconi per i cogl++++, ma le mie non gli stanno in mano’. Mi viene in mente questa frase, che rileggendola fa ridere. Quello di Umberto Bossi è stato un linguaggio primitivo, triviale e fallocentrico, funzionale a evocare un’immagine di autorevolezza intorno a sè e allo stesso tempo. a costruirsi l’identikit dell’uomo comune, lontano dai salotti dei benpensanti. Un modo per intercettare i voti dei lavoratori e piccolo-medio imprenditori dell’Italia del Nord disillusi dalla politica tradizionale e arrabbiati con il Governo centrale, reputato inefficiente”.

In una intervista hai detto che secondo lei la parolaccia è come Mastroianni: cioè?

“Sì mi è venuto in mente questo parallelismo un po’ bizzarro dopo aver visto la mostra al Palazzo del Fulgor dedicata a Marcello Mastroianni di cui quest’anno ricorre il centesimo anniversario dalla sua nascita. Il noto regista Mario Monicelli diceva di lui che era ‘un attore di razza’, aveva una ‘personalità tanto plasmabile da consentire ad ogni regista di fargli indossare i panni del playboy, del fallito, del marito, dell’amante’. Ecco anche la parolaccia è poliedrica, ha più anime: può essere un rafforzativo e un elemento frizzante, o, al contrario un’offesa e la certificazione dell’imbarbarimento linguistico. E in politica, in base alla modalità di utilizzo che ne fanno i nostri leader, riusciamo a capire che ruolo si vogliono ritagliare nell’immaginario pubblico.

Questo chiamiamolo stile comunicativo allontana o avvicina i giovani dalla politica?

“In parte li allontana. Molti trovano svilente un dibattito fatto di insulti e slogan che forse trasmette l’idea che la politica non abbia tutto questo valore, e invece ne ha tantissimo”.

C’è una via di uscita?

“Abbiamo diversi politici, soprattutto sui territori, davvero di livello, che si fanno interpreti di una politica più sostanziosa che rumorosa. Penso che a Rimini, e anche tra i più giovani, possiamo contare su diversi rappresentanti e amministratori molto concreti, che fanno poco teatro e più fatti. E credo   che i giovani politici abbiamo provato sulla propria pelle la politica delle promesse, degli slogan, della propaganda e per questo non vogliano ricadere in questo schema, ma uscirne e affrontare i temi che interessano alle persone”.

Stefano Cicchetti