E gli onorevoli del liscio danzano col maestro dell’ortodossia socialista
14 Dicembre 2020 / Nando Piccari
Bisogna essere grati a chiunque cerchi di “tirarci su” in questi giorni tormentati, regalandoci qualche nota di buonumore. Sarebbe però preferibile lo facesse evitando che la comicità sconfini nella “scemenza” più ridicola.
Come nel caso di quei deputati legaioli (con in testa il forlivese azzimato come un indossatore e l’on. spiaggiarola riccionese) che non sapendo come passare le giornate – tanto nella Lega c’è Salvini che pensa e fa per tutti – si sono inventati una “sciapità” senza eguali: la proposta di legge per rendere obbligatoria la «introduzione dello studio della canzone “Romagna mia” nell’ambito delle attività didattiche delle scuole di ogni ordine e grado».
Questo perchè il celebre cavallo di battaglia di Secondo Casadei «non rappresenta solo una canzone ma una semplice e al tempo stesso profonda espressione di un modo di essere che va al di là dell’essenza romagnola che essa esprime. La canzone “Romagna mia” è infatti l’espressione di un modo di vivere in positivo tutte le sfumature della vita e di un forte legame con le proprie origini».
Se i suddetti “onorevoli della balera” avessero sfornato quel loro cervellotico concentrato di aria fritta il primo aprile, sarebbe stato facile scambiarlo per il più divertente “pesce” di quella giornata dedicata agli sfottò.
Per la verità non è la prima volta che “Romagna mia” fornisce ai leghisti l’occasione di cadere nel ridicolo.
Come non ricordare, infatti, la sera in cui Salvini, terminato a Bologna il comizio in preparazione della sconfitta alle regionali, fu indotto dalla Borgonzoni a salutare il pubblico cantando? Ma anzichè “Nustalgî d Bulâggna”, come tutti si aspettavano, fra lo sconcerto generale la sua dama di compagnia gli fece intonare proprio “Romagna mia”. Un po’ come se a Milano, terminato il comizio, al posto di “O mia bela Madunina” Salvini avesse cantato “Roma nun fa’ la stupida stasera”; oppure a Genova “La porti un bacione a Firenze” anziché “Ma se ghe pensu”.
Com’era prevedibile, la balordaggine dei nostri “deputati del liscio” ha incontrato una scontata obiezione. “Prendiamo atto – hanno detto in molti – che da Predoi a Linosa (le località più a nord e più a sud d’Italia) i ragazzi dovranno dunque imparare a memoria “Romagna mia”. Ma perché solo quella? Cos’hanno di meno “Comme facette mammeta” (Napoli), “Voga voga cocola” (Venezia), “Canti d’amuri e carciru” (Calabria), “Camina Ciucciu camina” (Puglia), “Pelegrin ch’al vèn da Roma” (Piemonte) e tante altre canzoni popolari d’Italia?”
La risposta è stata ancora più comica della proposta di legge stessa: «Vogliamo accendere i riflettori sul tema, ci piacerebbe in realtà che ogni territorio potesse avere una sua canzone popolare da insegnare a scuola».
Ma ve lo immaginate? Fra le materie d’insegnamento andrebbero pertanto inserite la conoscenza, lo studio e fors’anche l’esecuzione canora di mille e più canzoni. Per fare posto nel calendario scolastico alle otto-dieci ore settimanali di questa nuova materia, denominata “pacchianeria romanza”, andrà inevitabilmente abolita una di quelle tradizionali, in conformità all’adagio “una canzone al giorno toglie l’algebra di torno”.
Si può fin d’ora immaginare un esempio di interrogazione-tipo.
Professoressa: «Bisoni, sai dirmi cosa significhi“Vitti na crozza supra nu cannuni”?»
Bisoni: «È facile: “Ho visto una croce sopra il cannone”»
Professoressa: «Ignorante! Significa “vidi un teschio sopra una torre”. Vorrà dire che per domani imparerai a memoria “O surdato nnammurato”!».
Sicuramente i “leghisti del walzer” non si aspettavano il malcelato fastidio con cui l’ultimo discendente dei Casadei, Mirko, ha accolto il frutto della loro “grezzura culturale”, bollando come «parole esagerate» quelle che definiscono la “canzone di famiglia” una «espressione popolare dei valori fondanti della nascita e dello sviluppo della Repubblica».
«Non credo che “Romagna mia” – questa la sua risposta – abbia bisogno di una promozione di stampo politico, essendo sempre stata un inno popolare patrimonio di tutti, che ha avuto ed ha tuttora una sua vita indipendentemente da chi voglia strumentalizzarla». Arrivando a ironizzare sul fatto che «la proposta di legge porta un errore macroscopico: non è stata scritta nel 1906 ma è datata 1954»; per poi concludere: «Abbiamo altri problemi in questo momento nel nostro Paese». Un po’ come dire, in romagnolo, “Ciàpa sò e porta a chèsa”.
La legge canterina dei leghisti un merito però l’ha avuto: prevedere all’articolo 2 che «le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano nel cui territorio sono presenti minoranze linguistiche provvedono all’attuazione di quanto disposto… nel rispetto dell’articolo 6 della Costituzione».
In altre parole, ai ragazzi altoatesini di madrelingua tedesca sarà concesso apprendere e cantare “Romagna mia” così: «Meine Romagna / in voller Blüte / du bist der Stern / du bist die Liebe /….. »
Verrebbe però da chiedersi perché mai i legaioli di Romagna non abbiano chiesto un parere preventivo a Sgarbi, sull’esempio dei loro omologhi di Ferrara, che gli si sono rivolti per chiedere che scegliesse lui il nuovo direttore del prestigioso Teatro Claudio Abbado (che si starà rigirando nella tomba).
Personalmente ho accolto con gran piacere la designazione del remissivo Moni Ovadia, poiché mi “assolve a posteriori” dall’aver sempre provato un’istintiva antipatia verso di lui.
Il motivo? Quell’insopportabile saccenteria da dispensatore di fuffa contrabbandata per il messaggio politico, fatto cadere dall’alto, di chi ne sa sempre una più di tutti, è bravissimo ad infiorire una caterva di banalità col tono ispirato della voce e non perde occasione di impartire lezioni alla sinistra, esortandola a prendere esempio da quella, presunta, del suo sodale Tsipras.
Uno così te lo saresti immaginato accorrere alla corte ieri di Chàvez, oggi di Maduro. Invece no, è riuscito ad appagare il suo ardore rivoluzionario prestandosi a fare da foglia di fico al Sindaco leghista di Ferrara e alla destra che lo sostiene.
«Grazie all’Amministrazione – ha belato Ovadia – a cui riconosco coraggio e lungimiranza per aver fatto una scelta libera e fuori da ogni conformismo, orientata al teatro e alla cultura». E come si sa «la cultura prevale sulle fazioni e il teatro è per il pubblico, è vita ed è verità». Dulcis in fundo, un’espressione di modestia: l’impegno a «portare Ferrara nel mondo e il mondo a Ferrara».
Pensare che fino a ieri il compagno Moni Ovadia ci esortava a non sottovalutare che «la Lega è terreno fertile per il fascismo».
Indubbiamente questa vicenda chiarisce una volta di più che non fa una gran differenza fra essersi ieri candidati con Ingroia e mettersi oggi al servizio dei vassalli di Salvini e della Meloni.
Nando Piccari