Ecco da dove viene la nostra tazzina quotidiana
14 Ottobre 2024 / Paolo Zaghini
Maurizio Maria Taormina: «‘U Cafè. Ovvero della fantastica scoperta del caffè» – NFC
Ormai da qualche mese stiamo leggendo tutti che i grandi paesi produttori di caffè hanno seri problemi di produzione legati alle mutate condizioni climatiche e alla siccità. Per far fronte a questa difficile situazione si stanno muovendo anche le grandi istituzioni economiche internazionali, perché i maggiori paesi produttori non hanno le risorse monetarie per aiutare i contadini, spesso operanti su piccoli appezzamenti di terreno. Su dieci milioni di tonnellate di caffè prodotto, oltre 3 milioni e mezzo provengono dal Brasile, seguito da Vietnam (1 milione e seicentomila tonnellate), Indonesia (722.000 tonnellate), Colombia (720.000 tonnellate), Honduras (480.000 tonnellate). Questi cinque paesi producono quasi 7 milioni di tonnellate sulle 10 prodotte a livello mondiale. La situazione ha già determinato una impennata dei prezzi e i giornali hanno incominciato a scrivere che presto la tazzina di caffè al bar ci costerà 2 euro.
Il caffè è la bevanda più diffusa nel mondo e il suo valore economico complessivo è secondo solo dopo il petrolio. In Europa arrivò nel 16. secolo da Turchia e paesi arabi, che lo importavano allora dall’Etiopia. La prima città in Italia ad aprire botteghe del caffè fu Venezia nel 1645, e da qui si diffuse nel resto del Paese nei decenni successivi.
Questa piccola premessa per introdurre l’affascinante storia siciliana che Maurizio Taormina, palermitano di nascita ma riminese d’adozione, ci regala, in una edizione raffinata e curata da parte dell’editrice riminese NFC di Amedeo Bartolini. Una storia scritta in siciliano, ma con una bellissima traduzione in italiano. Ma c’è di più: il volume apre una nuova collana, “Giulebbe”, “interamente dedicata alla ricostruzione della storia e delle complesse origini, di alcuni alimenti ancora oggi diffusi, consumati e noti in tutto il mondo”: tipo il marzapane, l’anice, la pasta alla Norma, la cassata, i cannoli, il tonno, il marsala. Collana curata da Taormina, e naturalmente dedicata ai prodotti siciliani. Non ricettari di cucina, ma libri “dove saranno protagonisti uomini, donne, garzoni, mugnai, serve, monache, baroni, badesse, monsù, nobili e borghesi, speziali e vinattieri che attraverso l’ingegno, la ricerca, il desiderio di trasformare hanno modificato taluni semplici prodotti alimentari in creazione ricche di talento, ingegno, conoscenza e tanto gusto”.
La storia, ambientata in una frazione di Modica in Sicilia ad inizio ‘700, vede protagonista un barone spiantato, Don Cateno della Miraglia, che cerca di “campare” con piccole truffe architettate per aumentare il peso del grano venduto al Bey di Tunisi. Questo si accorge che “il grano non è buono, anzi è fradicio!”, così che l’ultimo carico invece di essere pagato in oro, è compensato con due sacchi “di ceci sconosciuti e strani”. Ceci chiamati in turco Cahuèh.
Don Cateno è il proprietario di un cavallo, meglio di un ronzino, chiamato Fifiddo. A questo stanco cavallo vengono date in pasto un po’ di quei ceci strani. “Barone guardate bene Fifiddo, sembra tornato giovinetto (…). Neanche quando era nella sua età gli riusciva una cosa così grande e lunga”.
Intuizione, tanto da ordinare a Nofriu, il servo, “parti e inizi a girare per ogni casa, stalla, fondaco, pagliaio da qui a Pachino. Racconti a tutti del miracolo, della meraviglia, e prendi gli appuntamenti. Mi raccomando cinque appuntamenti per giornata. Anzi con questa meraviglia possiamo farne dieci. Cinque al mattino e cinque nel pomeriggio. In questo modo possiamo rifarci delle once d’oro che ci hanno rubato” (il Bey di Tunisi che non gli ha pagato il grano adulterato).
Ma il Barone non ha tenuto conto degli imprevisti. Dopo settimane di intensa attività sessuale di Fifiddo, una mattina si presenta alla fattoria l’inquisitore Galtero Segundo Caro de Ribera, con i militi, che “ordina il sequestro del cavallo infettato dall’opera del Diavolo” e “ordina di bruciare immediatamente il Chauèh, probabilmente seme malefico del Diavolo”.
Alla esecuzione delle volontà dell’Inquisitore assiste don Calorio Scafè, speziale del paese ed amico del Barone. Questi raccoglie dal fuoco tutti i ceci turchi bruciacchiati e dice al Barone: “Barone, ma se riusciva a far avere un’erezione considerevole al cavallo, perché non può accadere con un cristiano?”.
Diverso tempo dopo il Barone viene chiamato dallo speziale nella sua bottega. Qui “un profumo strano, insolito e sconosciuto che sapeva di bruciato, ma quel bruciato buono come quando lo zucchero caramella sul fondo del pentolino, bucò le narici del Barone”. Don Scafè gli porge un “bicchierino con un po’ di brodaglia nera, tanto nera da sembrare acqua sporca”. Dopo un primo impatto negativo lo speziale spiega: “il cahuèh non può essere consumato appena raccolto. Bisogna lavorarlo: lavato e tostato a fuoco debole come i semi d’orzo o carruba. I semi verdi tostati diventano tanè, quasi neri. Dopo bisogna macinarlo fine fine, come fosse farina, o polvere, così se ne può mettere poco, diciamo un cucchiaino per pentolino pieno d’acqua calda (…). Il cahuèh si trasforma e diventa buono anche per i cristiani, non solo per gli animali. Tostare i semi, macinarlo, farlo bollire, aggiungere lo sciroppo di zucchero. Ma al mondo nessuno lo sa, tranne Voscienza e io medesimo”.
Barone e speziale trasformano la bottega di quest’ultimo, incominciano “ a vendere il brodo nero e caldo di cahuèh, ma nessuno sapeva cosa fosse. Si sparse la voce, e al mattino presto tutti, villani, borghesi, cavalieri, preti, monaci, soldati, prostitute, prima del lavoro, da ogni parte, si mettevano in fila per bere un bicchierino di cahuèh. Gli affari andavano così bene che Don Calorio dovette ingrandire la bottega”.
“La bottega di don Scafè diventò rinomata e affollata da ogni dove. La gente iniziò col dire andiamo da Scafè? Ci vediamo da Scafè. Che ne dici ci facciamo uno Scafè? A forza di ripeterlo, anche nei paesi vicini, perse la esse e iniziarono a chiamarlo Cafè”.
Per me allora un caffè basso bollente, senza zucchero. Grazie.
Paolo Zaghini