Com’era prevedibile, è già cominciata la stagione dei “Sì, vabè…però…”.
L’altro giorno, al bar, ho sentito un tizio che diceva a un altro: «Sì, vabè, sarà anche vero che Ignazio Benito La Russa ha la casa piena di busti e di ritratti del suo omonimo Mussolini. Però gli va riconosciuta la correttezza democratica di essersi trattenuto dal rivolgere un “brutta strega” a Liliana Segre che l’aveva appena proclamato Presidente del Senato. Anzi, le ha perfino deportato – pardon volevo dire portato – un mazzo di fiori».
E l’altro, di rimando: «Certo. E questo vale anche per il presidente della Camera, quel tale Fontana. Sì, vabè, oltre che amico fraterno dei neonazisti greci, sarà anche un pubblico estimatore di Putin. Però nel discorso inaugurale, volendo dar sfogo al suo fervente bigottismo, ha rinunciato a rivolgere un deferente pensiero all’ignobile figuro che a Mosca tromboneggia sulla Chiesa Ortodossa, girandolo invece a Papa Francesco. Ed è anche riuscito a non chiamarlo, come abitualmente fa “l’immigrato comunista in Vaticano”, ma “il Santo Padre”, facendo così contento pure Salvini.»
Quando poi si tratti di Giorgia Meloni, i “sì, vabè…però”, sono destinati a crescere in modo esponenziale:
«Sì, vabè, sarà anche figlioccia di Almirante, pronipotina politica del Duce, compartecipe dello squallore fascisteggiante di Oban, Putin e dei neofranchisti spagnoli di Vox, però le va riconosciuto quanto sia diventata brava a nasconderlo, arrivando addirittura a chiedersi cosa sarà mai questo fascismo di cui ultimamente sente tanto parlare. Ma poi, come si fa a non apprezzare che il primo colloquio in francese l’abbia avuto non con la sua camerata Le Pen, ma con Macron, vale a dire il nemico di costei».
«Sì, vabé, sarà anche vero che quando parla in quel suo romanesco strascicato (“Avemo vinto, annamo a comincià”) sembra la versione magra della Buzzicona, moglie di Sordi in alcuni film. Bisogna però riconoscere che esibendosi con tanta naturalezza borgatara, quasi tutti la capiscono senza grandi sforzi d’intelletto, particolarmente i suoi elettori, così poco attrezzati a usarlo».
Ma dove il meloniano “sì, vabé, però” raggiunge altezze stratosferiche è quando si sottolinea il fatto che lei sia una donna.
Nulla da eccepire se ci si limitasse a dire: “Una donna a capo del Governo? Anche se frutto di una fortuita casualità, è comunque un’interessante novità, ancorché ridicolizzata dal fatto che lei, in omaggio alla sua concezione del primato maschile, voglia farsi chiamare “il Signor Presidente”.
Invece no, ecco partire una stucchevole litania di vituperi alla sinistra post-comunista e di elogi alla destra, che le donne al governo avrebbe sempre saputo valorizzarle.
Per carità, il PD e le sue variabili d’origine (PDS e DS) hanno avuto la loro parte e non vanno certo giustificati. Ma a questa negativa consuetudine hanno dato un apporto del tutto minoritario. Di questi 80 anni di Repubblica, la sinistra post-comunista ne ha infatti passati al Governo solo 18, con appena 4 Presidenti del Consiglio su 31.
La cosa che sorprende di più (o forse di meno’) è che il “femminismo rivoluzionario” della Meloni non venga soltanto esaltato dalla volgarità di Libero, il Giornale, Rete Quattro e compagnia infamante, ma anche da un sottobosco di signore con la puzza sotto il naso, che a seconda dei giorni si sentono qnche un po’ di sinistra,
Due per tutte: la cicaleggiante Concita De Gregorio e Dentona Dandini, per la quale «l’ascesa di Giorgia Meloni è un insegnamento per le donne di sinistra. È una donna che va ammirata per la sua determinazione e forza».
Ma del resto si sa: per salire con una parvenza di dignità sul carro del vincitore, o della vincitrice, è buona norma cercare un pretesto trovare un bandolo da tirare.
Naturalmente non mancano pure quelli che vanno predicando “gli elettori hanno sempre ragione” (un po’ come i clienti…) e “in democrazia bisogna rispettare l’esito del voto”.
Fuori da ogni melliflua ipocrisia, non vedo perché, a elezione conclusa, dovrei cambiare opinione rispetto a prima del voto. In altre parole, per quanto mi riguarda continua ad avere ragione chi ha votato come me, pur rimanendo sconfitto. E se non vogliamo scambiarla con il Libro Cuore, la democrazia non mi chiede affatto di rispettare la vittoria elettorale di chi continuo a ritenere faccia male all’Italia, ma a lei basta e avanza che io ne prenda atto e l’accetti, sia pure con immensa incazzatura. Altrimenti occorrerebbe rispettassi a posteriori perfino i due risultati elettorali che in prima battuta hanno portato al potere sia Mussolini che Hitler.
E magari dovrei rispettare anche le non poche maleodoranti mondezze che sicuramente avranno votato Meloni e che, forti del fatto che in questo Paese Prefetti, Questori e Procuratori hanno altro da fare che applicare le due leggi Scelba e Mancino contro il fascismo, fra qualche giorno torneranno a lordare Predappio con la loro buffonesca rievocazione della cosiddetta “marcia su Roma”. Coccolati da un Sindaco che, vista l’aria che tira, per non far loro torto ha nel contempo negato l’adesione alla manifestazione dell’Anpi, volta invece a rievocare il giorno della liberazione di quel Comune.
Naturalmente quel primo cittadino si guarderà bene dall’ammettere che la sua sia una scelta esclusivamente politica, perché non tutti i Sindaci di destra hanno il coraggio di quello di Pennabilli, che si vanta di essere nato con la camicia nera e con la camicia nera di volerci morire. Comunque la si pensi, la sua è una scelta di totale coerenza. Mica come quella di chi nasce idiota e muore cretino.
Nando Piccari