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El pueblo unido jamàs serà vencido


23 Dicembre 2021 / Nando Piccari

Credo che pure ad altri “compagni” della mia generazione la splendida vittoria di Gabriel Boric in Cile abbia procurato, oltre alla soddisfazione politica, anche un’immensa emozione. Un’emozione che nel mio caso è di lì a poco sconfinata in un’incontenibile commozione, quando non ho potuto fare a meno di riascoltare dopo tanto tempo gli Inti-Illimani.

Una vittoria niente affatto scontata quella di Boric, visto il risultato del primo turno, quando il vantaggio conseguito da José Antonio Kast pareva dare fondatezza al timore che il Cile potesse tornate nelle grinfie del fascismo, riesumando così per intero l’immonda eredità di Pinochet ad un Paese che ancora non è riuscito a disperderne del tutto l’eco.

A rendere tutto ancora più bello è il fatto che a vincere sia stato un ragazzo più o meno dell’età che avevano i più grandi di noi, quando impazzimmo di gioia nel salutare l’elezione di Allende, che nel nostro immaginario andava ad affiancarsi a Pablo Neruda e, idealmente, alla figura del nostro mito Che Guevara. Sempre noi che tre anni dopo ci precipitammo nelle strade e nelle piazze, a urlare contro Pinochet e la sua banda di criminali tutto l’odio e le maledizioni che ci venivano dal profondo del cuore, associati al disprezzo per Nixon e Kissinger, i mandanti di quel crimine.

In queste ore è un riaffacciarsi di “ricordi riminesi” che mi rincorrono, mescolando assieme episodi e momenti felici con altri di segno del tutto opposto.

Il 4 settembre 1970, giorno in cui Salvador Allende divenne Presidente, stava per concludersi la mia permanenza a Segretario della Federazione Giovanile Comunista Riminese, ma insieme a Walter Moretti, che di lì a poco mi sarebbe succeduto, feci in tempo a condividere l’euforia che saliva da molti dei nostri “circoli figicini”.

L’11 settembre 1973 a darmi per primo la drammatica notizia che a Santiago era iniziato il golpe e che Allende era asserragliato al Palacio de La Moneda fu Ennio Balsamini, che – lo ricordo come fosse ora – incontrai verso le 10, andando a prendere un caffè al baretto situato vicino all’allora sede del PCI, all’angolo fra la Vecchia Circonvallazione e l’inizio di Piazza Malatesta.

I comunisti riminesi, e in parte anche il resto della sinistra, parteciparono fin dal giorno dopo alle iniziative di solidarietà alla resistenza cilena e al sostegno degli esuli che stavano riuscendo ad espatriare clandestinamente, o che erano divenuti tali perché si trovavano già in Italia al momento del golpe. Fra questi una cara compagna ora scomparsa, Jaqueline Cartagena, che per anni ebbe poi a Rimini un ruolo di primo piano nel Sindacato Inquilini SUNIA.

Migliaia di cittadini del nostro territorio diedero vita a momenti di grande partecipazione, culminati in appuntamenti di forte intensità politica ed emotiva. Ricordo fra questi un concerto degli Inti Illimani nel 1974 a Rimini, mi sembra alla Sala dell’Arengo.

Un altro appuntamento di quell’estate lo propose il Festival del Teatro in Piazza di Santarcangelo, con la «Serata in onore di Pablo Neruda» del 28 luglio, un continuum di partecipazione emotiva che teneva assieme musica, balletto, le testimonianze di Isabelle Allende e dell’Ambasciatore di Allende in Italia Carlos Vassallo, culminando con la lettura de «I satrapi» l’ultima poesia del grande poeta, qui riportata.


Ma nel pomeriggio quell’iniziativa fu ad un certo punto messa in pericolo dall’assurdo atteggiamento del Maresciallo della Stazione Carabinieri, il quale sosteneva trattarsi di un puro e semplice comizio politico, che avrebbe pertanto richiesto la sua formale autorizzazione preventiva, la cui mancanza ora impediva lo svolgimento dell’iniziativa.

Facendo parte del Comitato Direttivo del Festival, arrivai anche quella sera in largo anticipo, accolto dalla costernazione del grande Romeo Donati, Sindaco e Presidente, e del Direttore Artistico Piero Patino.
Conoscendo la sensibilità e la disponibilità umana dell’allora Sostituto Procuratore Roberto Sapio, gli telefonai per esporre la situazione, col risultato che provvide lui a far ragionare per il verso giusto il tutore dell’ordine.

Un’altra bellissima serata ce la regalò Luis Guastavino, che era stato Deputato e Sindaco di Valparaiso e dopo il golpe riuscì a rifugiarsi con la famiglia in Italia. Lo invitammo a una Festa de l’Unità (la data non la ricordo) alla vecchia Fiera oggi Palacongressi, dove tenne un discorso talmente appassionato da provocare i brividi e far venire le lacrime agli occhi alla maggior parte dei presenti.

Anche quella serata ebbe un preludio, però questa volta divertente. Al mattino ero andato a ricevere all’aeroporto Guastavino, la moglie e i due figli, per accompagnarli in auto a Rimini. Nel presentarci a vicenda ebbi come la sensazione che loro si sforzassero di trattenere un sorriso non proprio di circostanza. Uno sforzo a cui però i ragazzi ben presto rinunciarono, cominciando a ridere divertiti mentre ripetevano il mio cognome. A quel punto Guastavino, non senza un pizzico di imbarazzo, me ne spiegò la ragione: «Devi sapere che da noi “picaro” equivale al vostro “figlio di….”.

Tornando alla vittoria di Boric, a renderla ancora più “gustosa” è sapere che si è trattato dell’ennesima “sponsorizzazione sfigata” di Salvini.

Dopo aver collezionato le trombature di quasi tutti i candidati che godevano del suo appoggio nelle due ultime elezioni, questa volta sentiva di andare sul sicuro esternando una “sbrodolata” in sostegno a Kast, che godeva del favore dei pronostici essendo in testa dopo il primo turno.

Per uno come lui, in corrispondenza di amorosi sensi con i fascistoni Orban e Bolzonaro e che ha un bel feeling con i caporioni dei neonazisti tedeschi Gauland e Weidel, cosa vuoi che sia mai augurarsi la vittoria del figlio di un ufficiale nazista della Wehrmacht, per di più fratello di uno dei ministri torturatori di Pinochet? Uno che nel suo programma elettorale aveva inserito l’amnistia per i non molti assassini del passato regime che la democrazia cilena sia riuscita a mandare in galera, insieme al divieto di aborto anche alle donne stuprate o in pericolo di vita; e che continuava a ripetere «Se Pinochet fosse vivo voterebbe per me».

Peccato che Salvini non sia un elettore cileno e che Pinochet sia crepato, sia pure troppo in ritardo e immeritatamente nel suo letto anziché in galera. Altrimenti avrebbero potuto andare al seggio insieme, l’uno sottobraccio all’altro a votare il fascista Kast.

Nando Piccari