Quelli della Barafonda, come una fiaba che non si lascia raccontare
19 Maggio 2023 / Enzo Pirroni
Trovatelo voi a Rimini un posto in cui il sole tramonta nel mare? Certo che esiste. Se percorrete via Carlo Zavagli in direzione monte mare e vi incamminate sulla pencolante, stinta ma massiccia diga che convoglia il Marecchia verso le salmastre acque dell’Adriatico, vi troverete ad assistere ad uno spettacolo straordinario: il nostro astro che contraddicendo qualsivoglia regola geografica ed astronomica piano, piano svaporando come in un quadro di Segantini, mutevole ed evanescente, tra cirri di sfilacciato cotone, s’inabissa in una vertigine di tenui pastelli, nelle onde. Vorrà pur dire qualcosa una siffatta anomalia?
San Giuliano Mare resta il più favoloso dei luoghi. C’è un barcollìo, assidui rimandi a vedutisti da quattro soldi, un incongruo paesaggio, con tutti gli squilibri ed i capricci di un luogo di frontiera abitato da personaggi scontornati e fuori dalla storia. Kafka aveva scritto che “ogni uomo è il portatore del proprio paesaggio”, ebbene, qui a San Giuliano a Mare, nessuno si è mai azzardato, né si azzarderebbe ad abbandonare, non dico fisicamente ma soprattutto mentalmente, quel luogo fatto di ossimori, discordanze, epitesi, strampalati trastulli architettonici. Un luogo dove tutto va a ritroso per cui, ancor oggi allorché passo per via Ortigara, cerco La Capannina dei fratelli Buldrini.
Lo so, è il mio un procedere a mò dei granchi che un tempo brulicavano sui scivolosi scogli. Neanche i gabbiani sono più quelli di un tempo. Ora mi pare che strillino più raucamente. Sono più grossi, più voraci, più protervi. La Capannina era il nostro caput mundi. Tutto avveniva in quel dancing dove le geremiadi dei poveri musici erano metafore intese ad accompagnare i sussulti di pettorute operaie della Magneti e Marelli, in vacanza alla Pensione Ricchi.
Lì mentre Bruno Buldrini “Plotzsky”, fasciato in un inzaccheratissimo smoking di due taglie più stretto, imitando Bogart, si aggirava tra i tavoli attento che i “clienti” consumassero, tra un brioso chiacchiericcio, si principiavano amori, nascevano flirt e le fanciulle (più o meno fanciulle) si cullavano nel canto di illusori presagi, destinati ad esaurirsi ai primi freddi venti d’autunno. Cos’era quel mondo se non un teatro di azioni fisiche, di mosse codificate, di ammiccamenti, di invenzioni aventi per fine la promenade in riva al mare?
Intanto “Giga” Buldrini, cuoceva “spiedini”, friggeva lacerti di seppia, e raccontava agli astanti le di lui imprese calcistiche: “Ho giocato tre stagioni nella Sampdoria, altre due nel Catania, per tre anni, complice la rottura del menisco mediale del ginocchio sinistro, sono stato fermo, per terminare la mia carriera nel Perticara che allora militava in Serie C”. Povero “Giga”! Non si era mai mosso dalla Barafonda, tranne i quattro anni che aveva trascorso al Sanatorio di Sondalo per curare, come diceva lui: “Un po’ ad tisia!”.
Per essere BAGNINI a San Giuliano Mare, non era necessario ma era preferibile essere analfabeti, o quasi. Sempre gli stessi da tempo immemore. Si muovevano lenti indossando canottiere di lana come fantocci trasportavano sdrai, aprivano e chiudevano ombrelloni per poi assopirsi all’ombra dei loro capanni, mentre le mogli (rigorosamente in vestaglia) armeggiavano al fornellino a gas, tra zaffate di soffritti, e vampate di “spezzatino con le patate” che era il piatto simbolo della scongiurata miseria. Come si stava sotto gli ombrelloni (che noi non affittavamo)? Si viveva l’ebbrezza del niente. Si facevano stupidi giochi tracciando segni sulla sabbia, si sbarlocchiava tra le gambe delle ragazze nella speranza che dal costume fuoriuscisse un briciolo di peluria, si rideva compiacendo colui che, con ritmi stordenti, raccontava insipide barzellette. La stupidità la faceva da padrona e questa cretineria voluta produceva ridicolose situazioni prive di senso. C’era, se si può dire, un ammiccante torpore che svaniva nell’infantilismo estivo.
Ma era l’inverno la stagione nella quale San Giuliano Mare risplendeva in una abbagliante luce di cataclisma. Come in un delirio, circonfuso di una nebbia densa mi riappare il Bar Miki, il nostro bar sulla via Coletti. Non avrà mai fine la fascinazione di quel luogo, non si perderà la memoria degli avventori. Dirò del Bar Miki coi versi del poeta ceco Nezval: “ …il tempo fugge ed io vorrei dire ancora molto di te. Il tempo fugge e di te ho detto poco sinora. Il tempo fugge come una rondine…” ed il ricordo accende le vecchie stelle sulla sinistra del porto. Ripensare al mio bar vuol dire, per me, ritrovare la foltissima schiera di amici che se ne sono andati per sempre, guardandomi allo specchio non mi riconosco.
Ma questo vecchio dagli occhi velati dalla inevitabile cataratta, che ha nel mesto sorriso l’annunzio di una già avanzata vecchiezza, questo vecchio – mi chiedo – è il ragazzo che correva in bicicletta? Che trascorreva le notti al tavolo del biliardo? Che disputava con caparbia tenacia appigliandosi a cavilli ideologici, incomprensibili per un misero contradditorio? Il ragazzo di buoni studi che si ingegnava di convincere i babbei che i compagni che erano usciti dal Pci, dopo l’invasione dei carri armati russi a Praga, avevano ragione e che non si doveva dare ascolto alle assurdità ed alle bugie che l’Unità andava scrivendo. Il ragazzo che aveva la capacità di infervorarsi per una giusta causa, sono proprio io? Non mi riconosco.
Chi si ricorda di Vincenzo Bracconi, detto CENCIOSO, ritenuto da tutti il più abile “astatore” dell’Adriatico settentrionale? Alto, avvolto nella capparella, attendeva che arrivasse “Lo Zingaro”, per ingaglioffarsi in tremende partite di “scopa bazzica” e lì tra sputi in terra, imprecazioni e bestemmie, correva voce che si fosse “mangiato” tre appartamenti. Capitava, a volte, che mi chiedesse di accompagnarlo al Grattacielo, dove una sovrabbondante maìtresse “teneva di mano”. L’aspettavo all’interno della mia 500. Il freddo era tremendo e le ore trascorrevano lente. Una volta che ebbi l’ardire di lamentarmi, dicendogli che “impiegava troppo tempo”, mi guardò storto. Poi mettendomi in mano una carta da diecimila lire mi disse: “ Zcor bein te che te vint an! Prova te a carghè se mi birel! St’amazed e guerda sémpra mal scherpi. L’andrà a finì ch’am duvrò lighè al scherpi me col!”.
“Quod supra nos nihil ad nos”. Se qualcuno si immagina che il BAR possa essere stato un luogo di dispute culturali o quantomeno ideologiche, si sbaglia. Discussioni, litigi che potevano sorgere e generarsi tra gli avventori, in genere marinai torvi ed accigliati con facce deformi, avevano sempre un substrato venale: debiti di gioco non onorati, favori promessi e poi non concessi, fattacci di corna, miseria che riaffiorava come da una catàbasi nelle tetre stanze dell’averno.
Dispute che avvenivano usando il dialetto. Il nostro dialetto diverso, per cui, mia nonna materna Rachele Nicoletti, nata a Rimini in Piazza della Fontana e battezzata in Duomo il 26 Settembre 1881, sapeva ben distinguere: “Quell l’è un purtlot. Bròta raza! T’an sint cumé che zcorr? Stai po’ da long!”.
Il PORTOLOTTO, quindi. Dico il “portolotto” ma esito nello scrivere questo nome. In realtà chi di noi l’ha sentito parlare davvero? Si diceva che l’ultimo che lo padroneggiasse con sicurezza era stato un certo “Tomà del Paranà”. Curiosa storia la sua. Per sottrarsi alla leva militare, nel 1916, s’imbarcò e fece perdere le sue tracce. Non era niente, non era nessuno. Un povero giovane marinaio che aveva casa sul porto. Una scolorita, umile esistenza, la sua. Cosicché, partito che fu, nessuno più ne parlò né da alcuno venne ricordato. Ritornò sorprendentemente a Rimini, nei primi anni sessanta. Aveva all’incirca settant’anni ma ne dimostrava molti di più. Nella buona stagione aiutava un tal Monaldi fabbricatore di vele svolgendo umili incombenze. Girava tutto nudo coprendo le proprie pudenda con un enorme cinto erniario. Di notte frequentava le osterie, per il gaudio dei beoni. Per un bicchier di vino offertogli cantava le struggenti canzoni argentine in lunfardo che, come aveva scritto Borges, “altro non era che uno scherzo linguistico inventato da scrittori di sceneggiate e compositori di tango”. Inoltre, unico in tutta la Sinistra del Porto, si esprimeva in un “portolotto”, che forse puro non era, ma era quantomeno obsoleto e sicuramente diverso. Ma chi avrebbe potuto certificare e dimostrare la “dialettalità portolana” nella strana parlata del povero Tomà?
Il PORTOLOTTO resta un mistero, in quanto, mentre per l’italiano letterario e comune disponiamo di esaustivi dizionari storici, quei dizionari che permettono di ricostruire l’iter di una parola dal medioevo ai giorni nostri, per quanto riguarda i dialetti non disponiamo che di dizionari relativamente recenti (otto-novecenteschi) – in casi eccezionali del settecento – che non forniscono quasi mai notizie sulla diffusione anteriore delle voci, per cui lo strano modo di esprimersi del vecchio marinaio veniva attribuito alla bislaccheria demenziale del personaggio. Sì, era possibile che dalle conversazioni fatte tra gli uomini di mare, avvolti in spessi tabarri, con le immancabili pipe di schiuma tra i denti, scaturisse la parola ARZANA’ piuttosto che ARSENALE. Arsenale è voce araba e Dante la fa entrare di buon diritto nella nostra letteratura: “l’arzanà dei viniziani” (Inferno, Canto XXII). Ma erano frange isolate, sperdute in un miscuglio di vanitas, che si perdevano nell’ebrezza del passato.
Ma il nostro dialetto, il mio dialetto, è ancora identitario. Siamo rimasti in pochi ma, attraverso il balenio di labili detti, ci sentiamo i diretti discendenti di quei naviganti giramondo che, una volta messo il piede in terraferma si tramutavano in perdigiorni ubriachi ed inebetiti. Chi si “vantava” di parlare (a modo suo) il PORTOLOTTO era Marino Ghirardelli, famoso uomo di mare riminese. Quando, il vecchio capitano Ghirardelli, “BARCHE”, per i pescatori riminesi, iniziava a raccontare le proprie avventure, aventi per teatro luoghi tropicali, o quando rievocava incontri che avevano dell’incredibile, come quella volta a Roma nell’ufficio di Secchia, o quell’altra ad Hong Kong dove, in un bordello ritrovò una sua compagna di scuola…. Alto, massiccio, con le spesse lenti da miope che gli nascondevano metà del volto, parlava lentamente padroneggiando il dialetto dei lavoratori del mare. Veramente, il suo era un dialetto antico ed ormai disusato. In quei suoni arcaici ritrovavo molto più di una semplice nostalgia. Erano oscillazione, disequilibrio al punto che venivo trascinato in eventi a me sconosciuti. Mi pareva di essere, anch’io attore di un fare, di un dialogo ai limiti della storia, ed ancor oggi, ripensandoci mi chiedo se quel mondo è esistito, oppure no. Quel linguaggio: il PORTOLOTTO, doveva essere oltremodo fascinoso.
Lo ripeto: il PORTOLOTTO oggi è come una fiaba che non si lascia raccontare. Va da sé che le due figurine di Battista e di Ninaza (due marinai riminesi del primo 900) che dialogavano una domenica mattina, venivano ad assumere, grazie alle parole di Marino Ghirardelli, contorni mitici.
Battista e Ninaza si incontrano sulla Piazza della Fontana:
B. – Du vatu ti?
N. – Avag a mesa.
B. – Du vell chi fa bein?
N. – Ti Servi, i fa selpa e cala, te Domo i fa in tera e via.
B. – Alora, a vag te Domo.
Recatosi al Tempio Malatestiano, mentre la funzione volgeva al termine, si avviò verso l’uscita. Uscendo, incespicò con le sue rozze scarpe nella vaporosa sottana di una signora, producendole un largo strappo. La signora si voltò e con fare piccato apostrofò il marinaio: – Brutto villanzone! Guardate dove mettete i piedi!
Offeso Battista rispose: – Villanzone a me? Che potessi annegare! Quant mi entri in porto al veli a li manticio. Ai faz regula me mestier. Ti, invece, tvein in porto a pataca verta fasendo la pavona! Se a to de dani, va’ da Monaldi che te taca una pezza!
Sicuramente si tratta di un dialetto diverso da quello puramente riminese e queste differenze si notano e a livello fonetico e a quello morfologico. Nel dialetto di Rimini la seconda persona del pronome personale è te (es, Dove vai? = Du vet? o Du t’ve?). In questo caso ci troviamo in presenza del ti e questo t lo abbiamo in forma soggettiva proclitica: Du vatu ti – che è forma mutuata dal dialetto veneto. Altra testimonianza dell’influsso veneto è la degeminizzazione delle due esse di MESSA: nel dialetto riminese MESSA e non MESA e il mantenimento della vocale finale in DOMO (dial. riminese DOM); inoltre PORTO per PORT ed anche quel gerundio FASENDO, mentre il romagnolo non conosce, generalmente, in posizione finale né O né U, il veneto mantiene la vocale (es: braccio = braso, gallo = galo).
Si potrebbe continuare in questa analisi e, ad ogni passo si troverebbero esempi. Ciò era dovuto a motivi commerciali, motivi di soglia, di contiguità con le marinerie di Venezia e Chioggia che incrociavano le prue con quelle dei legni riminesi. Tuttavia, il rimestare in una materia così lutulenta come il dialetto e per di più un dialetto scomparso, fa, alla fine, l’impressione di un arrogante e, nello stesso tempo dissacrante, tentativo di violazione legato alla curiosità di sapere. Quando si cerca di definire come “proprio oggetto” un discorso di due poveri marinai, ci si arroga il diritto di definire, per mezzo di cieche argomentazioni, l’intero mondo. E se il linguaggio è un insieme di segni, lo studio del linguaggio è lo studio di “ogni cosa che possa essere assunta come un sostituto significante di qualcosa d’altro”. Preferisco ricorrere all’immaginazione e seguire il mio antico, amato capitano nei suoi viaggi al limite della storia. Del resto, come insegnava Lacan: “Si ricorre all’immaginario per farsi un’idea del reale – SE FAIRE scrivetelo SPHERE e saprete cosa voglia dire l’immaginario”. Nella sfera di cristallo è rinvenibile la sola risposta a codesto dialetto scomparso e noi – come personaggi di Fitzgerald – “continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato”.
Il BAR MIKI, penso, è stato l’ultimo “esercizio” nel quale prevaleva su tutto il gusto per l’invenzione: invenzioni debordanti di estri linguistici, frutto di accese fantasie metaforiche chiamate a testimoniare la grande, clownesca buffoneria della miseria. In quel luogo si celebravano continui esorcismi per opporsi alla dissipazione della esistenza.
Avvenne quindi che Pierino “e mecanich”, uomo di piccolissimo conio, stupidamente avaro e sciocco, si permettesse (stava attorno ad un tavolo ad assistere ad una partita di “tressette”) di lasciarsi scappare la frase: “A voi veda la capela d’Orioli e po’ a vag a chesa”, che il menzionato Orioli si alzasse e, abbassandosi i pantaloni, dopo aver messo il proprio membro in bella vista sul tavolo da gioco, liquidasse il povero meccanico dicendo: “Tvulevte veda la CAPELA? Ecco. Ta la e vésta! Ades, vis de caz vat a chesa!”.
Ma c’era anche chi, come Sandro Corazzi, fabbro e saldatore abilissimo, sciorinava il compiacimento della propria infinita erudizione al punto che moltissimi frequentatori del bar che avevano assorbito tutte le capacità ironiche, gli umori, i frizzi velenosi di una stirpe miserrima come era quella da cui tutti noi provenivamo, l’avevano soprannominato: “CINQUECANI” perché lui andava ben oltre il sapere della ENCICLOPEDIA TRECCANI. Sandro, assumendo un’aria di scetticismo, come colui che troppe esperienze aveva vissute, troppe ubbie aveva sperimentate, soleva dire, nei momenti topici della discussione: “Signori, io di questo argomento non me ne intendo, ma se ve lo dico io, credetemi è così!”. Il bello era che Sandro, non solo veniva ascoltato ma era tenuto nella massima considerazione. Era il giusto disprezzo della cultura togata, era il restare aggrappati ad una compiaciuta credulità dove il sapere umano si converte in minimalistica contentatura. Il bar era il suo rifugio, il suo porto, l’aula nella quale poteva tenere la propria immancabile lectio magistralis. Di politica si parlava, per la politica ci si accapigliava. C’era quello che gli avevano dato “un posto in Comune” che altri non era se non un “untorello” addottorato nelle scienze della più bassa adulazione, un tipico campione di quell’epoca nella quale i “comunisti” la facevano da padroni e una raccomandazione di Rino Amadei, sindacalista ammanicato con i potenti per il quale cedebant arma togae, cocedant laurea linguae, poteva cambiare di punto in bianco la vita di un altro uomo, intavolasse un confuso discorso circa la giustezza delle tesi togliattiane, valendosi del contributo potente della parola. Lo ascoltavano alcuni, altri gli voltavano le spalle.
Fortunatamente faceva il suo ingresso Ricci Antonio da Bellariva, rappresentante della casa editrice De Agostini di Novara. Elegante nel suo spezzato: pantaloni di flanella grigia e giacca di cammello, Ricci, che aveva girato il mondo, al punto che traduceva anche il suo nome e cognome in francese: Rick Antonie!, ordinava il suo wisky con ghiaccio e si sedeva al tavolo del poker. Era estremamente immediato e la sua figura emanava autorevolezza. Una volta, che si era in vista delle elezioni politiche gli venne chiesto: “Per quale partito voterà signor Ricci?” Lui serissimo rispose: “Per TAFI!”. “Ma che partito è?” – chiese l’altro. “Tajadeli e figa”. E si concentrò sulla mano che stava giocando.
Ora, anche se fingo il mio altezzoso disdegno per le inutilezze che riempivano quelle stanze, rimpiango quei tempi e, come spesso mi succede, mentre, con angoscia, mi avvio alla fine dei miei giorni, li ricordo come affamati di poesia. So bene che tutti questi ricordi non mi sopravviveranno, che si sfalderanno inevitabilmente in questa assurda corsa all’oblio. Provenendo da quel contesto, da quell’ambiente non ho messaggi né parole di conforto da lasciare in eredità. Mi ero provato un tempo a scrivere un sonetto intitolato: E mi bar. Questo avvenne molti anni orsono.
E mi bar
In te nost bar, cl’era ad qua de port
truvevte i ritrat ad Togliatti e Padre Pio.
In te biglierd u s’eserciteva “Figlio Mio”
che sarà quarent’an da che l’è mort.
Quei dla morra i urleva sempra fort.
Braconi e zugheva a cherti cun e Zio
e tra spud, purcheri e porco zio
u s’era sputanè un luchel se port.
Po la televisioun l’è arvata drenta al chesi
e pien pien avemm pers la voja ad scapè.
I bar i s’è svutè piò can’è al cesi.
Finché i l’ha cius. E nisun u’i ha badè.
Me a s’era pasè di lè se fiol ad Chesi
Poch minut dop che Rino u s’è sparè.
Enzo Pirroni
(nell’immagine in apertura: effetti dell’alluvione dell’agisto 1976 in via Carlo Zavagli- foto di Davide Minghini, Archivio fotografico Biblioteca Gambalunga)
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