«No uterus, no opinion»: non serve la traduzione, anche se lo slogan viene dalla celeberrima serie americana Friends, ed è la risposta tranchant con cui Rachel, una delle protagoniste, zittisce un partner che minimizza le sue contrazioni in gravidanza. Alle nostre pie orecchie italiane può sembrare un po’ tranchant, «niente utero, niente opinioni». Non è che avere organi genitali femminili automaticamente significhi avere sempre opinioni corrette e condivisibili in fatto di riproduzione. Diciamo che se l’opinione viene da una donna, si presuppone venga espressa da punto di vista un po’ più competente sulla fisiologia e sulla psicologia femminile rispetto a quella di un uomo, se non altro dal punto di vista empirico.
In soldoni: se una donna mi dice «l’aborto è un dramma», posso non essere d’accordo, ma so che è in grado di immaginare cosa sarebbe per lei ritrovarsi con una gravidanza non prevista e non voluta, oppure le è successo davvero e ha dovuto prendere una decisione in un senso o nell’altro, oppure è ricorsa a precauzioni per evitare di dover affrontare un dramma che avrebbe vissuto col suo corpo e con la sua mente. E comunque non permetterei nemmeno a lei di applicare a me o a qualunque altra donna scelte e sensibilità rispettabilissime, ma tutte sue.
Se invece a dirmi «l’aborto è un dramma» è Matteo Montevecchi, consigliere regionale della Lega che si oppone alla decisione del governatore Stefano Bonaccini di distribuire nei consultori la pillola Ru486, allora il «no uterus, no opinion» mi sale spontaneo. Del «dramma dell’aborto» lui sa quel che ha letto o gli hanno detto, o detto di dire. Ne sa ancora meno, o finge di non saperlo, del dramma del non-aborto, cioè non poter interrompere la gravidanza in modo legale e sicuro, diritto garantito dalla legge 194.
Basterebbe guardare i numeri degli anni Settanta, quando l’aborto era un crimine e veniva praticato in clandestinità: 3-400mila ogni anno, effettuati in sale operatorie improvvisate, in casa col ferro da calza, o con alghe o decotti. Interventi che causavano anche la morte delle donne, circa 30mila all’anno. Ma si preferiva rischiare piuttosto che diventare madri per forza, perché, da che mondo è mondo, quando una donna un figlio non lo vuole, non lo vuole, e a meno di non incatenarla farà di tutto per non averlo.
La legge 194 (che, per inciso, ha abbattuto il numero degli aborti, 66.413 nel 2020, uno dei tassi più bassi al mondo) non prevedeva l’aborto farmacologico, all’epoca c’era solo quello chirurgico in ospedale. Oggi la Ru486 dà la possibilità di abortire senza ospedalizzazione, aggirando l’ostacolo rappresentato dai troppi medici e infermieri obiettori, che in tante regioni invalida il diritto all’aborto. Vietarne la distribuzione nei consultori, come vorrebbe Montevecchi, significa non voler rendere l’interruzione di gravidanza meno complicata e traumatica.
Insomma, l’aborto è un dramma e deve restare un dramma, e chi lo chiede deve soffrire, se non fisicamente almeno psicologicamente. Cosa che può essere meglio assicurata in ospedale, dove alla paziente, precisa Montevecchi, viene fornita «la possibilità di incontrare coloro che potrebbero sostenerla e aiutarla ad accogliere la vita». Cioè gente che la riempie di sensi di colpa, le mostra video di feti e vuole convincerla a cambiare idea.
Consigliere, una donna sa benissimo quando è pronta ad accogliere la vita e quando non lo è. Non ha bisogno delle prediche del primo venuto che non sa niente di lei e vuole imporle i suoi valori, contando sulla sua vulnerabilità. Mi creda, il modo più efficace per favorire l’«accoglimento della vita» è migliorare la vita delle donne (e pure degli uomini, perché i figli si fanno in due) sotto altri aspetti: lavoro, casa, sicurezza, servizi. Su questo si potrebbe dire e soprattutto fare qualcosa, anche se si è sprovvisti di utero e pure leghisti.
Lia Celi