Conosco un tipo il quale sostiene che certe volte, dopo aver bevuto più del solito – e il solito… è già tanto – si vede arrivare dall’aldilà lo spirito di qualche celebre personaggio del passato, animato – è proprio il caso di dire – da una gran voglia di raccontarsi. Alcune sere fa, però, la cosa avrebbe avuto uno svolgimento imprevisto. Essendosi lui insolitamente addormentato nel bel mezzo della libagione di un delizioso whisky torbato, lo spirito di turno, anziché svegliarlo, ha usato la gentilezza di lasciargli un messaggio scritto, che lui giura essere il seguente:
«Accidenti a quella volta che, passato il Rubicone (o il Pisciatello? Boh…), ho deciso di lanciare da Rimini il proclama di guerra contro Pompeo, con quel ‘alea iacta est’ di cui per la verità non mi ricordo, ma che ormai i posteri mi hanno attribuito. Lucio Cassio Longino, il mio Legatus legionis, mi aveva avvertito: “Cesare lascia perdere, cambiamo città, non salire su quella colonna. I Riminesi son gente strana, un po’ appiccicosa, non te li toglierai più di torno per i secoli a venire. Stammi a sentire, non fermarti qui, ‘vade recta’, fila dritto”. Ma non essendovi all’epoca neppure una rotonda, come facevo a filare dritto?».
«Devo però riconoscere che per molto tempo non ha trovato una particolare eco, nel ricordo dei Riminesi, quella mia performance oratoria nella piazza che poi mi venne intitolata, dopo che in precedenza era stata Piazza Grande, Piazza delle Erbe e Piazza Sant’Antonio.
I fastidi sono cominciati con l’arrivo di un panzuto pelatone di Predappio il quale, autoproclamatosi mio successore, oltre a dar ad intendere di imitarmi esibendosi in tromboneggianti smorfie sul balcone di Palazzo Venezia, ha pure iniziato ad infestare più di una piazza d’Italia con la copia, della copia, della copia di una mia statua originale».
«Una di quelle bronzee croste è così toccata anche a Rimini, consegnatale nel corso di una comica cerimonia che, molti anni dopo, avrebbe dato spunto al vostro grande Federico per alcune fra le più esilaranti scene del suo Amarcord: almeno così ho sentito dire, dal momento che io il film non ho potuto vederlo, perché lo proiettavano al Cinema Paradiso che sta al piano di sopra, dove non mi è consentito accedere per certi pregiudizi nei miei confronti».
«Di andare in quella piazza non l’avevo scelto io, ma già che c’ero speravo di rimanerci per sempre, perché in fondo non mi dispiaceva che la gente, passando, mi guardasse. Una mattina mi accorsi però che la piazza continuava a rimanere deserta via via che scorrevano le ore. All’indomani vi comparvero degli inquietanti individui, che facevano sì il saluto romano come ai miei tempi, ma lo intercalavano col rumoroso ‘ein-zwei’ di una lugubre marcia. Sentii poi che qualche raro passante li chiamava a mezzavoce ‘maledetti crucchi’».
«Un giorno alcuni di costoro arrivarono trascinando in piazza tre giovani e… mi vengono ancora i brividi al ricordo di cos’è successo dopo. Non mi ci volle molto a capire che il mandante morale dell’assassinio di quei ragazzi era il mio donatore pelatone. Perciò non trovai da ridire quando altri soldati, che avevano fatto scappare a gambe levate i crucchi ed i loro garzoni italiani vestiti di nero, se la presero anche con me: prima mi insultarono chiamandomi ‘stercus’, dopodiché mi portarono via dalla piazza, seppellendomi sotto terra, vicino al fiume».
«Quanto sia successo dopo, ormai lo sapete tutti. La ‘Consociatio Patriciorum Arimini’ , con in testa il celebre Notarius Pellio circondato da un tot di Advocati Forenses, ha iniziato un gran can-can perché riavessi il posto d’onore al centro della piazza, che nel frattempo era stata dedicata a quei tre valorosi e sfortunati ragazzi. La cosa durò qualche anno, fino a che Josephus Acini – poi soprannominato Giuseppe Chicchi – non divenne Syndicus Arimini. Pur provenendo egli dalla schiera dei ‘Tribuni della plebe’, ci teneva a tenersi buoni i Patrizi, cosicché decise di dare due colpi al cerchio e mezzo alla botte: mi fece sì tornare nella rinominata Piazza Tre Martiri, però un po’ più defilato rispetto a dove mi aveva messo il pelatone. Ma in realtà facendomi il gran bel regalo di collocarmi all’ingresso del Corso di mio pronipote Augusto, dove ogni giorno mi diletto a contare le transitanti ‘puellae’ che ‘di naso’ mi ricordano la mia amata Cleopatra».
«Storia finita? Macchè! Il giorno prima che demolissero l’aedicula sottostante, a cui ero tanto affezionato, ho letto in una locandina che la rumba è ricominciata: non solo mi vogliono spostare di nuovo, ma in ben tre posti diversi».
«Un tal Caio Rufus Spinam vuole infatti parcheggiarmi dove mi avevano messo la prima volta, tanto per dare un po’ di danno al monumento che onora quelli che i complici del pelatone hanno massacrato; il Consiliarius Giaetius Renthii, che del pelatone è discepolo, ambisce invece vedermi baricentrico nella piazza, così con quel braccio alzato mi scambieranno per uno di quei pizzardoni di una volta. C’è poi la new entry Ianuarius Maurus (tu quoque…?) che mi vuole addirittura esiliare sotto l’Arco».
«Sia però chiaro che io non mi muovo da dove sono; e che “noli frangere mihi balls” è il messaggio che oggi mando a questa Ariminum che oramai è anche un po’ la mia città.
«Ma se proprio dovete spostarmi un’altra volta, almeno mandatemi al Valloni.
Nando Piccari