Quei bambini che giocavano a Ghécc, una tragedia dimenticata di Villa Verucchio
24 Aprile 2017 / Paolo Zaghini
Silvio Biondi, Amedeo Blasi, Maurizio Matteini Palmerini. “Ghécc” – La Pieve.
Non esistono purtroppo statistiche note sui morti e feriti da mine e bombe inesplose nel dopoguerra riminese. Qualcosa è noto sull’epopea degli sminatori che operarono in tutta la Romagna, da Cattolica a Ravenna, perché “Bardan” (Silvano Lis, 1926-2014) lo ha raccontato per averne fatto parte e per aver costituito l’associazione per la realizzazione del Cippo, nel 1985, nel Parco di San Giuliano Mare, ai nove sminatori riminesi caduti fra il 1945 e 1948. Essi facevano parte di quella schiera di coraggiosi, oltre 2.000, impegnati nel Nord-Italia nell’azione di bonifica. Di questi oltre 600 morirono dilaniati dalle esplosioni degli ordigni.
Ma diversi civili, fra cui molti bambini, rimasero feriti (spesso in maniera assai grave) o perirono nei mesi e negli anni successivi al passaggio del Fronte sui nostri territori. Quanti? Non lo sappiamo, ma le memorie dei singoli e collettive ci dicono che questa fu una terribile piaga del nostro dopoguerra.
Il libro scritto dai tre autori ci racconta la storia dimenticata di una di queste tragedie. Come in un film, attraverso le testimonianze raccolte dei parenti e dei vicini, si sviluppa sino all’epilogo tragico la storia di un gruppo di bambini di Villa Verucchio che nelle settimane successive alla Liberazione morirono a causa dello scoppio di una mina tedesca interrata fra le case del vecchio Borgo di Villa Verucchio.
“Il passaggio della guerra ha lasciato nei campi, nelle trincee un gran numero di residui bellici: cannoni, carri armati, anche due o tre aerei, e soprattutto munizioni, granate, bombe inesplose e bombe a mano di tutti i tipi. I bambini le avevano battezzate secondo la forma: pigna, ballerina, martello, schiacciapatate. Senza giocattoli, ma soprattutto senza soldi, i bambini si sono messi a raccogliere schegge di ferro, pezzi di ottone, di rame e li vendevano al “ferrovecchio” che di tanto in tanto passava con un camion. Con i soldi guadagnati compravano di tutto: dalla pistola ad acqua alle galline, dalle palline di terracotta (dette semplicemente ghecc) ai garibaldini (caramelline di zucchero di diversi colori)”.
Nel pomeriggio del 1° novembre 1944, giorno di festa, cinque bambini fra i 5 e i 13 anni saltano in aria, e uno rimane ferito, mentre tutti assieme stavano giocando a ghecc: “sul percorso del loro immaginario Giro d’Italia” hanno urtato una mina anticarro nascosta sotto una pietra. Potevano morire molti più bimbi; ma, pochi minuti prima dello scoppio, da un carretto trainato da un cavallo che si era imbizzarrito caddero tante mele e molti dei bambini presenti attorno al circuito di sabbia per le biglie erano corsi a raccoglierle. E così si salvarono.
Nessun giornale riportò la tragica notizia. La vicenda è stata ricostruita nel libro “attraverso la raccolta di testimonianze, soprattutto di sorelle, fratelli, parenti, compagne e compagni”.
I cinque bambini vennero dilaniati: “i resti che riuscirono a trovare di tutti i cinque bambini furono raccolti tutti insieme in una cassettina e sepolti in cimitero”. Lelio, Adelio, Iolanda, Pierino, Fernando riposano da allora assieme. Inseparabili nella vita e nella morte.
Nella presentazione, Alberto Malfitano, direttore dell’Istituto Storico della Resistenza, scrive: “Una guerra, anche quando è finita, lascia tracce di sé che si prolungano nel tempo di pace. Ad esempio continua nei giochi dei bambini, che restano infettati dalle simbologie della morte e del conflitto, entrato fin nel profondo del loro immaginario. Nel 1944, la sua permanenza si manifestò con una scia di morti vere, non giocate, come avvenne ovunque, specialmente nelle terre dove il fronte aveva stazionato a lungo”.
E prosegue il Sindaco Stefania Sabba: “i campi minati a ferire mortalmente la popolazione civile sono il triste racconto quotidiano degli inviati di guerra di ieri, come di oggi, senza differenze di latitudine. I fatti raccontati in questo libro, pieno di compassione e umano rispetto per i sentimenti e per i sopravvissuti, riportano alla memoria un episodio troppo a lungo sottaciuto, come se non riguardasse l’intera comunità, come se non meritasse pubblica pietà e menzione: questo racconto non riguarda solamente le 5 piccole vittime, innocenti e ignare, ha segnato per sempre l’esistenza delle loro famiglie, degli amici di tutta la Comunità verucchiese, in un silenzio rispettoso del dolore che si è protratto negli anni”.
La pubblicazione è stata voluta ed edita dal Circolo Ricreativo Culturale di Villa Verucchio, con il patrocinio del Comune di Verucchio e dell’Istituto per la Storia della Resistenza e dell’Italia Contemporanea della Provincia di Rimini, ed il sostegno del Circolo ANPI di Verucchio.
Paolo Zaghini