Giovanni Baldinini, politica e poesia
15 Febbraio 2017 / Paolo Zaghini
Non è mai semplice condensare in poche righe la vita di una persona impegnata, ricca di fatti e di amicizie. Lo è ancor di più se questa è una persona schiva, refrattaria ad apparire, riservata. Nonostante gli importanti ruoli pubblici ricoperti in tanti anni. E dunque raccontare di Giovanni Baldinini, per tutti Gianni, non è semplice. Ho dovuto appellarmi, oltre ai miei ricordi personali (lo conobbi a metà degli anni ’70), ai ricordi di tanti amici che con lui hanno vissuto vicende politiche, amministrative e culturali in epoche spesso lontane: Giancarlo Zanuccoli, Vinicio Vergoni, Zeno Zaffagnini, Sergio Zavoli, Gualtiero Masi, Giorgio Giovagnoli, Nando Piccari. E al piacere di una lunga telefonata con la figlia Maura che da tantissimo tempo non sentivo.
Giovanni Baldinini nacque a Rimini il 13 gennaio 1921, da una famiglia benestante: il padre gestiva la macelleria nel Borgo Sant’Andrea ed aveva diversi poderi. Negli anni del fascismo Gianni non si occupò di politica. Ricorda in un’intervista rilasciata ed apparsa nel volume “Viale don Minzoni 1. Il Partito Comunista Italiano. Riccione”, a cura di Daniele Montebelli ed Ezio Venturi (La Piazza, 2015) “io non ero iscritto al partito durante il periodo clandestino. A Fermo presi il diploma di perito industriale elettrotecnico … Fermo era famosa … e appena mi diplomai ricevetti molte offerte di lavoro da Torino, Milano, a cui risposi che non potevo accettare perché mi chiamavano alle armi. Prima il corso allievi sottufficiali a Casale Monferrato, poi mi hanno sbattuto come sergente a Bolzano; in seguito mi hanno fatto comandare addirittura la GAF (Guardia di frontiera) a Bolzano. Ma fondamentalmente avevo un senso antimilitarista”.
Dopo l’8 settembre 1943 “io non ero iscritto al partito allora, perché pensavo a salvare la pelle, perché se mi prendevano, mi fucilavano. Ero renitente ai bandi di reclutamento della Repubblica Sociale Italiana. Dopo sono diventato comunista, subito dopo la Liberazione di Rimini, per una scelta morale”.
Gianni subito dopo la Liberazione stringe amicizia con gli “intellettuali” riminesi, comunisti e non: da Renato Zangheri a Sergio Zavoli, da Demos Bonini a Glauco Cosmi. Sempre in quell’intervista Gianni racconta che “sotto il fascismo, se volevi emergere in qualche modo, dovevi avere una certa personalità che me la sono fatta studiando e leggendo al di fuori di quello che obbligatoriamente dovevo fare a Fermo, e quindi a me interessava la letteratura italiana ed europea in generale, la filosofia, la storia. Ebbi in quegli anni anche una forte crisi religiosa. Poi ho conosciuto, a Fermo, un poeta che sarebbe diventato l’ultimo amante di Sibilla Aleramo, un certo Franco Mattacotta, con il quale iniziai a scambiare idee, libri in francese …”.
Franco Mattacotta (1916-1978) poeta, giornalista, insegnante viene ingiustamente ricordato soprattutto per la sua relazione sentimentale con la scrittrice Sibilla Aleramo (lo fa anche Gianni), ma invece è stato tra i più importanti poeti del novecento secondo molti critici e storici della letteratura. Questo legame con Mattacotta proseguì per moltissimi anni e, secondo gli amici, gli consentì di partecipare ad incontri e ad avvenimenti letterari italiani, se non altro da spettatore ravvicinato.
Baldinini scrisse poesie per tutta la vita. Giorgio Giovagnoli, subito dopo la morte, ne curò la pubblicazione di una selezione scritte fra il 1941 e il 2000, con il titolo “Le stagioni di una vita” (Capitani, 2001). Con l’approssimarsi della morte, avvenuta il 30 settembre 2000, Gianni scrive la sua ultima composizione: “Sempre più spesso ormai la morte inghiotte / gli amici ultimi e perciò cari al cuore / mentre mi sento invisibile agli occhi / dei giovani passando in mezzo a loro”.
Gianni si era sposato il 20 ottobre 1949 con Maria Luisa, detta Marisa, Tonelli nata a Firenze il 3 settembre 1921 e morta a Bologna il 4 dicembre 2007. Il 16 maggio 1951 nacque la loro unica figlia, Maura, da tempo insegnante di lettere al Liceo Classico di Bologna, dove si è trasferita da Rimini nel giugno 1980.
Da subito Baldinini entra nel giovane gruppo dirigente comunista riminese, impegnato a ricostruire la città distrutta dai bombardamenti e ad organizzare la vita democratica del dopo fascismo. Il 18 novembre 1948 Ilario Tabarri, il Comandante Pietro dell’8.a Brigata, inviato a Rimini a dirigere il Partito lo vuole nella Segreteria del neo Comitato di Zona, che avrà il compito di lavorare per costituire l’anno successivo, al primo Congresso del 29-30 aprile 1949, la nuova Federazione del PCI Riminese. La segreteria del Comitato di Zona sarà composta da Tabarri, Nicola Pagliarani, responsabile dell’organizzazione, Gino Pagliarani, responsabile della Stampa e Propaganda, Baldinini, responsabile della Commissione d’Amministrazione. Gianni sarà chiamato a redigere la documentazione necessaria a Bologna e a Roma per confermare la sostenibilità economica della nuova federazione, la prima a livello nazionale non corrispondente ad un capoluogo di provincia. Da qui inizia il suo lungo percorso dentro la macchina organizzativa comunista: egli sarà per tutta la vita un funzionario di partito, ricoprendo gli incarichi più diversi: quello dell’organizzazione, degli Enti Locali, della cultura.
Dalla nascita della Federazione riminese fino alla metà degli anni ’60 egli sarà membro degli organismi ristretti e dirigenziali del PCI, la segreteria provinciale e la Direzione. Sarà membro del Comitato Federale o della Commissione Federale di Controllo (di cui fu il Presidente dal 1972 al 1977) del PCI riminese dal primo Congresso del 1949 all’ultimo del 1990.
Dalla fine degli anni ’50 al 1965 diresse il Comitato Comunale del PCI di Riccione, attraversato in quegli anni da profonde divergenze interne. “La Federazione pensò di proporre il mio nome per aiutare i compagni a mettersi d’accordo. La scelta cadde sul sottoscritto perché ero il meno settario e dai compagni riccionesi ero visto come ‘il meno riminese’. Accettarono il mio nominativo ritenendomi, non dico super parte, ma capace di non influire, come riminese, nelle questioni dell’Amministrazione e del Comitato Comunale. Era difficile creare un gruppo omogeneo che si imponesse nel partito, che comunque aveva una grande forza nella città. A Riccione esisteva peraltro un eccessivo desiderio di indipendenza nei confronti di Rimini” (da “Viale don Minzoni, 1″).
A Riccione nelle elezioni amministrative del 31 ottobre 1960 venne eletto anche in Consiglio Comunale e svolse nella durata del mandato il ruolo di capogruppo, con il primo Sindaco non del PCI: era stato eletto Giovanni Petrucciani del PSI in un accordo PCI-PSI. Venne rieletto anche nella tornata elettorale del 22 novembre 1964, quando il Sindaco tornò al PCI che elesse Biagio Cenni con un accordo PCI-PSIUP, ma si dimise il 24 marzo 1965 essendo stato candidato, e poi eletto, in Consiglio Comunale a Rimini.
Baldinini era già stato eletto in Consiglio Comunale a Rimini nelle elezioni del 27 maggio 1951 e vi era rimasto sino al 5 gennaio 1955 quando il Comune fu commissariato e il Consiglio sciolto.
Vi rientrò nel 1965, ed ancora nel 1970 e nel 1975. Dal 1965 al 1980 fu assessore ai tributi, al personale, alla cultura con i Sindaci Walter Ceccaroni (sino al 1970), con Nicola Pagliarani (sino al 1978), con Zeno Zaffagnini (sino al 1980).
Nelle elezioni regionali del 1975 il PCI riminese sfiorò la maggioranza assoluta nel Circondario ottenendo il suo miglior risultato elettorale: 80.411 voti pari al 49,96%. Nelle politiche del 1976 mantenne questa altissima percentuale di voti: 82.835 voti pari al 49,79%. E questo nonostante che alla vigilia delle elezioni del 1976 il Sindaco Pagliarani e l’Assessore ai Tributi Baldinini venissero accusati dalla Pretura di “aver omesso, o comunque ritardato indebitamente di procedere al recupero dell’imposta di consumo (per un ammontare di circa 200 milioni) relativa alle evasioni fiscali a a carico della S.n.c. Salumificio Riminese”. Una storia, iniziatasi nel 1971, intricata di responsabilità e ritardi fra Guardia di Finanza, uffici comunali, magistratura. La Pretura arrivò ad autorizzare contro i due amministratori comunisti un procedimento di ipoteca legale sulle loro case di abitazione. Per meglio tutelare la propria innocenza i due amministratori rinunciarono agli incarichi ricoperti, in attesa della sentenza della magistratura. In questa situazione la DC e Il Resto del Carlino scatenarono una vera e propria campagna di diffamazione verso i due amministratori.
Fu solamente con sentenza della Pretura di Rimini del 25 marzo 1977 che Pagliarani e Baldinini vennero assolti con formula piena “perché il fatto non sussiste”. Ma l’Avvocatura di Stato fece ricorso contro la sentenza assolutoria. Scrisse “Il Quindicinale” del 15 marzo 1979: “Ora giunge la sentenza della Corte di Cassazione che è stata emessa nei giorni scorsi dall’organo posto al vertice della magistratura. Essa rende piena giustizia agli amministratori comunisti, riconoscendo loro la piena estraneità ai fatti e confermando con la più ampia forma di assoluzione (il fatto non sussiste) il carattere artificioso e di pura invenzione dell’accusa creata nei loro confronti”. Alla fine di marzo del 1977 comunque Pagliarani e Baldinini erano tornati ad occupare i loro incarichi di pubblici amministratori.
Gianni per due volte rischiò di diventare Segretario della Federazione Comunista Riminese. La prima nel 1955 quando il segretario Mario Soldati venne costretto a lasciare. Soldati lo indicò chiaramente come suo possibile sostituto. Ma poi Ceccaroni e Pagliarani, con il sostegno del deputato eletto a Rimini, Giuliano Pajetta, fecero pendere le scelte degli organismi dirigenti per Augusto Randi. L’altra fu nel 1969 quando, dopo l’8° Congresso della Federazione (3-5 maggio 1969), un gruppo di sezioni di Rimini indicò Baldinini al ruolo di Segretario al posto dell’uscente Zaffagnini. Ma il Comitato Federale eletto al Congresso provvide a riconfermare alla segreteria provinciale Zeno Zaffagnini.
Il mio ricordo di Gianni è fortemente legato al suo essere un pedagogo politico (soprattutto verso i giovani), alla sua capacità di ragionare su tutto, in maniera serena, non settaria, ma consapevole di avere un ruolo da svolgere. Nel corso dei decenni, nelle foto di tutti i Congressi, delle riunioni importanti Gianni c’è: non in prima fila, ma subito dietro. Impegnato a prendere appunti, a stendere la scaletta del suo intervento.
A praticare l’arte del condividere, del tenere unito il Partito, di creare un comune sentire politico per la soluzione dei problemi. Qualcuno mi ha detto “privo di ambizione personale”. Forse vero, ma la vita di Gianni è stata segnata comunque da due grandi passioni: quella per la cultura e quella per la politica. E quest’ultima per lui significava impegnarsi a realizzare un mondo migliore attraverso un’attività caratterizzata da rigore morale e intellettuale. Dove il singolo conta, ma conta molto di più la squadra, il Partito.
Le sue poesie degli ultimi anni contengono serene riflessioni sulla morte, nonostante la sua vita sia stata segnata da gravi e prolungate malattie. Vorrei chiudere questo ricordo di Gianni con un suo testo, scritto nel 1996:
Io non so come né quanto dolore / dovrò ancora patire per attingere / l’estrema dimensione della morte. / So solamente che giovane pensai / baldanzoso raggiungerla d’un balzo. /
Ma il dipanarsi della vita a volte / a lei vicino mi ha sospinto ed io / stoico, l’ho fronteggiata con coraggio. /
Oggi temo che la mia fibra, logora / anche per gli anni, non sia più capace / di resistere a un brutale distacco / o a una agonia lenta e dolorosa / se la mia mente vigile e sagace / sarà impedita a reggerne lo sforzo.
Paolo Zaghini