Guido Nozzoli, il giornalista di Rimini che dava del tu a Ho Chi Min
10 Luglio 2023 / Redazione
La folta schiera di amici morti in questi ultimi anni, oltre che portarmi un lugubre annuncio di vecchiezza mi ribadisce una assoluta, per quanto dura da accettare, verità: non c’è alcun rimedio contro il tempo. Anche Guido Nozzoli se ne è andato oltre vent’anni fa. Dignitosamente, tra le viscose foschie di un cinereo novembre, ha intrapreso l’ultimo, definitivo viaggio verso la “lontana, deserta isola del silenzio, immersa nella penombra, avviluppata nel mistero”. Iniziò la professione di giornalista, nell’immediato dopoguerra, allorché venne assunto al “Progresso” di Bologna insieme ad un altro giovane intellettuale riminese: Gino Paglierani, passò quindi all’ “Unità” ed infine a “Il Giorno”.
Nei primi anni ’60, allorché i miei coetanei ed io, cominciavamo a leggere i giornali, cercando di capirci qualcosa, la firma di Guido Nozzoli era notissima. I protagonisti della generazione precedente alla sua, da Mario Missiroli, Giovanni Ansaldo, Orio Vergani, rimanevano, per noi, ciò che in realtà erano stati ed erano: vecchi mestieranti compromessi con una stagione ormai tramontata, screditati da un atteggiamento morale scettico e da un inevitabile approccio cinico con la realtà e con la notizia.
Guido Nozzoli, con la sua bravura, con la simpatia che ogni suo scritto sapeva trasmettere, con la spregiudicatezza che l’ha sempre contraddistinto, aveva, ai nostri occhi, il grande merito di non imprimere mai, sui suoi servizi, sulle sue corrispondenze, il marchio avvilente della ufficialità. Parlando della sua professione diceva: “Per essere un bravo giornalista occorre soprattutto saper ascoltare e sapere dove cercare le notizie. Bisogna, inoltre usare le gambe almeno quanto il cervello, nel senso che è indispensabile, prima di licenziare un articolo, verificare le informazioni, ma pretendere di dire la verità e tutta la verità con un giornale è come pretendere di suonare la Nona di Beethoven con un’ocarina. Lo strumento non è propriamente adatto”. Fu in Sicilia, cronista rigoroso, all’indomani di quel torrido 5 luglio 1950, allorché il corpo del bandito Salvatore Giuliano venne trovato privo di vita nel cortile di una casa di Castelvetrano.
Fu da una Modena insanguinata e offesa che Guido Nozzoli scrisse uno dei suoi servizi più toccanti, fremente per indignazione e passione civile, nel momento in cui raccontò della proditoria strage, compiuta dai “celerini” del ministro Scelba, i quali sparando dai tetti delle Fonderie Orsi sulla folla di scioperanti, lasciarono sul terreno sei morti ed una decina di feriti. Fu tra i primi a riferire circa le immani devastazioni provocate dallo straripamento Po nelle località Occhiobello e Paviole, il 17 novembre 1951 ed immediatamente accorse, il 10 settembre 1963, in una apocalittica Longarone, dopo che una frana, caduta nel bacino artificiale del Vayont, aveva provocato una improvvisa, colossale inondazione che causò migliaia di morti.
Per Guido Nozzoli, fare giornalismo ha voluto dire occuparsi dei mali dell’uomo, condividere i dolori di molti, esprimere coraggiosamente le proprie idee, criticare e giudicare, il tutto con la massima partecipazione ed onestà intellettuale. Fu come inviato speciale di guerra che Guido Nozzoli diede il meglio di sé. Già nel 1954, quando ancora scriveva per l’Unità, venne a contatto con i massimi vertici del Fronte di Liberazione Nazionale (FLN) algerino sposandone da subito la causa. Da codesta particolare posizione: cronista e fiancheggiatore dei “terroristi ribelli” (così gli uomini dell’OAS (Organisation de l’armèe sècrete) chiamavano i patrioti africani che combattevano per l’indipendenza e per la libertà del proprio paese), il giornalista riminese, raccontò, vivendolo in prima persona, tutto il conflitto. Magistrali furono le interviste effettuate a Ben Bella, al generale Yves Godard, capo del reparto strategico dell’organizzazione dei Pieds Noir e nel 1962, allo scrittore francese Andrè Malraux, allora ministro della cultura, chiamato espressamente a quell’incarico dal presidente De Gaulle. Poi venne il Vietnam ed anche qui il nostro uomo, non poteva che schierarsi da una parte.
Nella lontana Indocina, tra le paludi insalubri, la fitta jungla, le bombe al napalm, scelse di stare dalla parte dei vietnamiti del Nord. Divenne, a suo dire, amico di Ho Chi Min, tanto che, in occasione della vittoria delle forze vietnamite, al momento del briefing, Guido che alla conferenza stampa arrivò in ritardo, per aver cercato ebbrezza e conforto tra le braccia di una orientale schiattona, si sentì, amichevolmente appellare dallo stesso Ho Chi Min, che, con un confidenziale: Me e te, Guido, a zcurem piò terd, lo faceva entrare di diritto nelle più recondite e segrete cose. Con profetica esattezza, in tempi non sospetti, dalle colonne de “Il Giorno”, Guido Nozzoli si era detto sicuro della disfatta dell’esercito americano. Ebbe ragione. La guerra del Vietnam, costò agli Stati Uniti 55000 morti, 300000 feriti e110 miliardi di dollari. Essa per di più, contribuì ad offuscare, mettendola decisamente in crisi, l’immagine degli USA nel mondo.
Dopo l’attentato di piazza Fontana (12 dicembre 1969) diede vita con Marco Nozza e Morando Morandini al «Bollettino di controinformazione democratica». Senza di loro gli autori della strage si sarebbero cercati ancora segiando la pista anarchica e non quella neo-fascista.
Poi, a cinquantacinque anni, nella pienezza dei suoi mezzi espressivi, senza una ragione plausibile, staccò la spina. Ripose la fidata Olivetti lettera 22 nella custodia ed andò in pensione. Non ne volle più sapere né di collaborazioni né di soldi né di nulla.
Abbandonò definitivamente Milano e ritornò a Rimini nella vecchia casa paterna e qui, quasi andasse alla riscoperta di un panorama compiutamente familiare, avvolto nel proprio dolore come in un velo di favola (l’amata figlia Serena se ne era andata per sempre, divorata da un male che non perdona), si sottrasse un poco alla volta alla vita. Spesso, durante le nostre lunghe conversazioni, che ci portavano a consumare intere nottate, mi confessò di non possedere più la forza di aderire al proprio destino. Mi confessò che ormai il mondo gli pareva assurdo ed inestricabile e che non vedeva come fosse possibile trovare la salvezza mediante un atto di volontà.
Incantevole e malinconico riusciva (e questo fino agli ultimi giorni), ad ammaliarti in virtù dell’uso magico della parola e nella biblioteca surriscaldata dove, tra montagne di libri, erano affastellate a capriccio sfere armillari, pupazzetti di panno Lenci, cofanetti di cristallo di rocca, specchi di Boemia, scudisci dancali, maioliche dai molti colori, alambicchi, ritornava ad essere quell’animoso, lucido, implacabile argomentatore che durante la campagna elettorale del 1948 demoliva col suo rigore dialettico la “paranoia controriformistica” dei vari padri Samoggia e Lombardi.
Nel dicembre del 1999, il comune di Rimini lo volle onorare attribuendogli il “Sigismondo d’oro”. In quell’occasione, di fronte ad assessori distratti, giovani politici che nulla conoscevano di lui e della di lui storia, Guido fu dissacrante, autoironico riuscendo ad impartire a tutti i presenti una lezione di stile e di umiltà. Ultimamente le sue apparizioni in Piazza Cavour, consueto luogo di incontro con gli amici si erano diradate.
Spesso mi telefonava: una volta era per avere chiarimenti circa una parola provenzale antica e voleva che risolvessi i suoi dubbi andando a cercare nel monumentale: Lexique roman ou dictionnaire de la langue des Troubadours, di Raynouard, un’altra volta per aver conferma di una certa data o di un nome che non riusciva a ricordare o soltanto, più semplicemente, per dirmi di andarlo a trovare. Non c’era in lui, al di là dell’increscioso problema della vecchiezza, il minimo indizio che lasciasse supporre la fine imminente. Era soltanto stanco. Il melodioso fruscio delle foglie cadute sull’acciottolato del pletorico camposanto si mischiava al sommesso parlottio dei vecchi amici che lentamente, sotto un cielo novembrino, si allontanavano, dopo avergli reso l’estremo saluto. Ora che Guido non c’è più fitte di insicurezza e di sgomento trafiggono l’incongruità della mia esistenza ed il mio atroce desiderio di vivere.
Enzo Pirroni