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Impariamo a sognare una Rimini con l’Anfiteatro e con il Ceis


25 Febbraio 2023 / Giuliano Bonizzato

Ero convinto che il Comune avesse già deciso di spostare il CEIS in altra area (Parco Marecchia) onde liberare finalmente la parte ‘sommersa’ dell’Anfiteatro. Prendo ora atto che, stando a quanto dichiarato recentemente dal Sindaco Sadegholvaad, la Giunta avverte la necessità di effettuare una nuova serie di monitoraggi. Per i quali ricordo che a parere del Prof. Jacopo Ortalli (docente di archeologia all’Università di Ferrara, già consulente del Comune per la ‘Casa del Chirurgo’) saranno sufficienti rapidi sondaggi nelle zone già individuate, grazie all’ampia documentazione in nostro possesso.

Nel volume “Alla scoperta dell’Anfiteatro Romano” (edito a cura dei Musei Comunali di Rimini) vengono infatti riportati sia i disegni originali di Onofrio Meluzzi ricavati dai “vari e ragionati scavi in più punti” effettuati nel 1843-1846 da Luigi Tonini, sia le planimetrie di Nino Finamore elaborate dopo i rilievi del 1926 (Mancini) e del 1937 -38 (Aurigemma) che attestano l’esistenza di resti di notevole consistenza.

Si tratta (e cito nuovamente il Prof. Ortalli) di lacerti di fondamentale importanza ( anche in caso di una possibile loro modifica in seguito ad eventi bellici) in quanto delimitano l’intero perimetro monumentale. Ed è quasi superfluo aggiungere che il recupero dell’intero Anfiteatro farebbe di Rimini assieme all’Arco, al Ponte e alla Domus, la seconda città romana… dopo Roma. Per non parlare del richiamo turistico. E per tacere degli Archeologi che accorrerebbero da tutto il mondo come api al miele assieme ai loro allievi, costretti oggi ad esercitarsi su reperti di “serie c”, perché ormai si è scavato dappertutto.

Per quanto riguarda la recente diatriba politica sono perfettamente d’accordo col Sindaco. Non è giusto trattare l’argomento CEIS come semplice fatto di abuso edilizio e di tutela monumentale. Occorre infatti ricordare che il progetto nacque nel gennaio del 1946 quando la nostra Città (letteralmente rasa al suolo dai bombardamenti) era priva di tutto, dal cibo ai servizi igienici.

Si trattava di una sorta di Centro Sociale, dovuto alla benemerita iniziativa del Soccorso Operaio di Zurigo, posto in tredici baracche di legno, alle quali affluivano coloro che appartenevano ai ceti meno abbienti, per potersi fare una doccia e mangiare qualcosa. Ed è in questo complesso che venne anche apprestata una Scuola-Orfanatrofio per una ventina di bimbi che, sotto le bombe, avevano perduto casa e genitori.

Subito dopo, con l’arrivo dell’Educatrice e Pedagogista zurighese Margherita Zoebeli, accompagnata dall’amico architetto Felix Schwarz, il Centro diventa un grazioso villaggio, isolato il più possibile dalle macerie che lo circondavano grazie anche alla piantumazione di alberi e alla creazione di giardini. Nasce così il CEIS (Centro Educativo Italo Svizzero ) dove, partendo proprio dalla cura di quei primi piccoli ospiti traumatizzati dalla guerra, viene attuata la pedagogia d’avanguardia della Grande Fondatrice, basata sul rispetto della personalità del bambino, di cui viene tutelata e incentivata la creatività e la libertà. E dunque niente cattedre e banchi ma gruppi e circoli di lavoro, l’alternarsi dell’insegnamento al gioco, l’apprendimento di attività manuali riferibili perfino a mestieri scomparsi, il coinvolgimento dei piccoli disabili in tutte le iniziative, il rapporto con la natura, il costante coinvolgimento dei genitori.

Dobbiamo imparare a sognare.

A sognare l’Anfiteatro Romano restaurato e restituito alla Città in tutta la sua imponente ellisse, di poco inferiore a quella del Colosseo, visitato durante tutta l’anno da milioni di turisti, valorizzato da leggere strutture metalliche che pongano in risalto le opere murarie preesistenti, utilizzato durante la stagione estiva per suggestivi spettacoli all’aperto.

E a sognare il Centro Educativo Italo Svizzero che nasce nuovamente, in zona più ampia e salubre, con le calde casette in legno immerse nel verde degli inizi pioneristici.
Le ‘casine’, come le chiamavano quei primi venti piccoli orfani.

Giuliano Bonizzato