HomeCronacaIn Italia non vogliano i virus cinesi ma cacciamo gli scienziati italiani che li combattono


In Italia non vogliano i virus cinesi ma cacciamo gli scienziati italiani che li combattono


26 Gennaio 2020 / Lia Celi

Devo fare uno sforzo per rendermi conto che il Coronavirus non c’entra niente con il tatuato ex re dei paparazzi, anche se vista la psicosi dilagante, il suo nome dev’essere stato già inserito negli elenchi delle persone non grate dei maggiori talk show, tanto per andare sul sicuro.

Ma se volevamo iniziare il 2020 con una botta di emozione, l’influenza che viene dalla Cina ci ha accontentato. E’ il primo virus dell’età di Netflix, e infatti l’epidemia segue un copione da serie televisiva, in un climax crescente a base di bilanci di contagiati e di morti aggiornati ora per ora, di bufale e controbufale, di dichiarazioni e smentite.

L’ultimo scoop è la teoria di un esperto israeliano secondo cui il virus sarebbe stato creato in un segretissimo laboratorio militare in cui si lavora a un progetto di arma batteriologica, e situato proprio a Wuhan, il maggior focolaio dell’epidemia.

E in effetti, se si poteva capire come la famigerata «spagnola» del 1917 fosse potuta trasmettere dai polli agli operai impiegati negli allevamenti del Kansas (perché era da lì che veniva, ma non si poteva dire perché gli americani stavano salvando le sorti della Triplice intesa nella Grande Guerra), è più difficile spiegarsi come il coronavirus originario dei pipistrelli possa essere passato all’uomo, visto che i primi casi si sono registrati a Wuhan e non a Gotham City.

Diventa così troppo facile immaginare che si tratti di un morbo costruito in laboratorio e sfuggito di mano a uno scienziato pazzo, una riedizione del diabolico dottor Fu Manchu, il genio del male dei romanzi di Sax Rohmer che cent’anni fa divenne il simbolo del “pericolo giallo” e che, guarda guarda, fra le sue armi aveva anche i bacilli delle peggiori malattie dell’era pre-antibiotici.

Mentre tutti i governi del mondo sono in allerta per circoscrivere il contagio e la paura attanaglia il mondo, al cast di questa fiction virale manca ancora l’eroe. Le vittime eroiche, i medici caduti sul campo perché curando i malati hanno contratto il virus o sono stati stroncati dalla fatica, ci sono già, purtroppo, ma non c’è lo scienziato buono, quello che studia il virus e alla fine riesce a trovare il vaccino.

Un ruolo non facile, specie ai giorni nostri, quando è troppo facile passare da benefattore a mostro agli occhi dell’opinione pubblica. Ne sa qualcosa Ilaria Capua (nella foto), l’illuminata ricercatrice italiana che depositò la sequenza genetica di un ceppo influenzale, in un database ad accesso libero, disponibile a tutti gli studiosi, e fu messa alla gogna da un’inchiesta dell’Espresso che la fece passare per una trafficante di virus al soldo di Big Pharma.

Si dimise da parlamentare e l’anno dopo, benché prosciolta da tutte le accuse, decise saggiamente di lasciare un Paese non più all’altezza dei suoi scienziati, e dal 2016 dirige il dipartimento di Nuove patologie dell’università della Florida.

Ieri sera l’abbiamo vista su Raitre parlare del Coronavirus, con classe e lucidità: una delle luminari mondiali della virologia che il suo paese ha letteralmente costretto a espatriare a suon di calunnie. Se fa paura il morbo che viene da Oriente, forse fa ancora più paura il virus cronicizzato in Italia da qualche anno a questa parte, un virus mutante che unisce i geni della malafede a quelli dell’ignoranza, moltiplicandone i danni. E ancora non si vedono terapie efficaci.

Lia Celi